di Yuleisy Cruz Lezcano
Viviamo immersi nella complessità. Siamo esseri sistemici: corpo, mente e anima non sono compartimenti stagni, ma dimensioni interdipendenti di uno stesso essere. E proprio per questa natura complessa, ogni squilibrio in una parte di noi si ripercuote sul tutto. Se il corpo soffre, anche la mente si affatica. Se l’identità vacilla, anche le relazioni si incrinano. Questo vale per ogni individuo, e a maggior ragione per chi attraversa la stagione più delicata e vulnerabile della vita: l’adolescenza. Nel mondo contemporaneo, i giovani si trovano a crescere in un sistema sociale altrettanto complesso, ma spesso disgregato. Un sistema che li esalta come icone estetiche, ma li ascolta poco. Che li connette in ogni momento, ma li lascia soli nella profondità delle emozioni. Il risultato è un cortocircuito relazionale e identitario che si manifesta in nuove forme di disagio: isolamento, ritiro sociale, disturbi del comportamento, violenza verbale e psicologica.
Il sé, come sosteneva Charles Horton Cooley con la teoria del looking-glass self, è una costruzione riflessa: ci definiamo attraverso l’immagine che pensiamo gli altri abbiano di noi. Ma cosa succede quando questo riflesso è distorto? Quando il giudizio degli altri — o la sua assenza — diventa ferita, umiliazione, frustrazione? Nei ragazzi, soprattutto nei soggetti maschili più esposti a modelli culturali rigidi e obsoleti, questo riflesso alterato può condurre a derive devianti. Nascono così identità fragili, che cercano conferme nella rabbia o nel rifiuto. Il fenomeno degli incell, ad esempio, è l’estrema espressione di un’identità costruita su rifiuti subiti e mai elaborati, su dinamiche di potere anziché di affetto, su un’immagine dell’altro (spesso la donna) come minaccia o trofeo. Comunque, l’identità non si forma nel vuoto. Ogni adolescente è un sistema, certo, ma anche parte di un sistema più grande: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i social media, la società. E se questi sistemi si inceppano, se il linguaggio interiore non trova risposte nel linguaggio dell’altro, allora il rischio è che si rompa anche il legame tra le parti.
I dati sul ritiro sociale in Italia sono chiari: migliaia di adolescenti si stanno sottraendo al contatto con il mondo. Non escono, non parlano, non partecipano. E non lo fanno per pigrizia, ma perché non si sentono visti, compresi, accolti. Il disagio psicologico cresce silenziosamente, alimentato da un ecosistema che li valuta per la performance, ma ignora l’essere. Quando non si riesce a comunicare con il mondo, la rabbia implode o esplode. Si fanno strada comportamenti aggressivi, violenze verbali e psicologiche che agiscono come strumenti di compensazione. La rete, anziché offrire uno spazio di confronto, diventa amplificatore di frustrazioni. Nei social, l’identità si trasforma in vetrina: lì, il sé è solo immagine, mai sostanza. La violenza trova terreno fertile nel vuoto di empatia e nella continua esposizione a giudizi e stereotipi.
La società, nel suo insieme, fatica a vedere questa catena di eventi come un processo sistemico. Ma lo è. Ogni violenza ha una radice, e spesso quella radice è una relazione spezzata. Una parola mai detta. Un abbraccio mancato. Una scuola che non ha ascoltato. Una famiglia che non ha saputo decodificare il silenzio. Quindi si fa ora più che mai necessario ripensare il sistema: dal controllo all’ascolto, in modo di affrontare queste problematiche complesse, serve un cambio di paradigma. Non basta più agire sul sintomo (l’aggressività, il ritiro, il disagio), bisogna intervenire sul sistema. Serve ricostruire la connessione tra le parti: tra corpo, mente e anima; tra individuo e comunità; tra educazione e affettività. L’adolescente ha bisogno di essere riconosciuto nel suo tutto, non solo nella parte performativa. Serve un’educazione al sentire, alla lentezza, al dialogo. Serve un’alleanza tra famiglia e scuola, tra adulti e ragazzi, che restituisca senso all’essere e valore alla fragilità.
Comprendere l’adolescenza oggi significa accettare che siamo tutti parte di un sistema complesso, che il disagio di uno riguarda il benessere di tutti, che non possiamo parlare di identità senza parlare di contesto, di emozioni, di relazioni. Se pensiamo in termini sistemici, ci accorgiamo che ogni parola detta, ogni ascolto sincero, ogni gesto di cura è un intervento trasformativo. L’interiorità di un giovane può essere curata solo se il mondo intorno a lui diventa spazio fertile, non solo luogo di valutazione. Quando un sistema funziona, le sue parti si riconoscono, si rispettano, si ascoltano. Questo vale per un corpo umano, per una famiglia, per una società intera. Ed è proprio da qui che dobbiamo ripartire: dal coraggio di ricostruire legami autentici in un tempo che ci ha disabituato alla presenza. Perché solo nella connessione tra le parti può nascere il benessere del tutto.