“Con un piede nel deserto e l’altro nell’eterno”
Note di lettura a “Il Tassidermista” di Alfonso Guida
Terra d’ulivi edizioni
“…difficile accada qualcosa nel deserto. A volte, prego.” Esordisce così Alfonso, in uno degli ultimi brevi dialoghi che ci siamo scambiati qualche giorno fa, e mi pare di conoscerlo da sempre Alfonso, entrambi a ridosso di una realtà che ha esaurito la dimensione temporale. Chiedo a lui come sta, ed è il mio stesso stare, con un piede in quel deserto, e l’altro nell’eterno. L’intero è il silenzio.
Quello che chiamo per me, è il dono di chi nulla mi dà, in questa propaggine di schiuma terrosa quando l’acqua che resta sospesa si fa nebbia inevasa, e la storia la fa “il soffio e l’involarsi dei primi fischioni”, così come subito lancia il suo destino, Alfonso. Il destino dello scrivere esaudendo la parola annodata alla quiete, dove c’è da ricomporre il codice segreto della frattura alla terra, riportando a noi il mistero del quale siamo fatti, densi di una postura curva sotto il peso del fulmine che ci affratella nelle domande che i morti si fanno, stanchi di posare la cenere sui bordi del chiarore e dei risvegli delle cose, a trasparire negli accadimenti che si fanno simbolo, di ogni futura dimenticanza. E con delicatezza, poggia il suo lieve sorriso il Poeta, sui ruderi composti delle poche ombre vive, e tra di loro si sofferma a sorseggiare ciò che non ha un giudizio a scalare nei giorni, e le case destinate a raschiare le crepe del vento, si fanno esilio da officiare con i pochi che si sono dati appuntamento con dio, il minore degli antichi assenti. Si può intuire in quel silenzio che gioisce, l’essere grato che si scambia di ruolo, ad ogni passo. Si può in tal modo costeggiare il Giordano, per giungere in una sapienza di testo sacro, dove le spoglie di ciò che ancora è, ci attendono nelle grotte come “ciechi fedeli ai propri occhi”. Gli occhi dei padri, gli occhi che definiscono una linea di demarcazione tra quello che non sappiamo del male e quello che non sappiamo del bene, così da addentrarci dove ognuno passa e depone il suo “fiore senza gambo”, aggrappati alla sabbia che abbiamo tenuto in ostaggio sperando nel rilascio del tempo. Lo speravamo ieri, tolleranti con le mancanze che ci accoglievano come un grembo materno, spettando a noi il compito di riempire gli spazi tra una rovina e l’altra, tra un gelsomino e un caprifoglio, bevendo pioggia prima di dosarci la dolcezza di un veleno che ci permetteva di ammirare il grano ricco che cresceva, ed è questa testimonianza del Poeta Alfonso Guida che mi assedia, che ci assedia, facendoci testimoni del “lento mutare delle rovine” mentre l’impervia ombra gela le notti ed il vino nelle stesse grotte, con la precisione di un indirizzo sacro, dove nascondersi in una fuga ottusa di immoralità, e vorticosa di libertà allo stesso tempo, con l’ebbrezza delle stelle e delle mani del piacere. Sarà così, si, sarà che “il tassidermista” ferma la morte dandogli vita, e si riesce in tal modo a tenere insieme il buio e la luce, la decomposizione che fiorisce ed il tarlo dei santi, per onorare quel male buono che la tradizione delle campane votive ricopre di spine virtuose, riflettendo sul sacrificio di ogni fiore sgraziato.
Perché a ciò che si chiama grazia, poi, dobbiamo restituire gli stessi sguardi di giovinezza che abbiamo bruciato per rendere certa l’irruzione del fulmine fin dentro casa, precisa per noi, seguendo “la strada sull’uscio”.
Seguendo la stessa strada, mi sarei voluto fermare subito e a lungo, sui tre versi del Poeta, “Quando la spina cadde
tutto il bosco si distese e la rosa
si votò al sacrificio”
ma non posso mentire senza pudore, al viandante che sono, avido delle parole di Alfonso, e provo ancora a proseguire rigirando tra le mie dita il granello di terra che fa di pietra la bellezza delle sue parole, slegandomi da ogni colpa per il ritardo di questo incedere. E devo recuperare l’attesa, con l’aiuto dei maestri che non insegnano, se non le tracce dove posarsi per rifare il calco della loro solitudine, con una lettera dopo l’altra, affiancate come pezzi di specchio che ricostruiscono il culmine che acceca, quel parlare in esilio che “rallenta le certezze”. Tace così la vista, le cose povere di Alfonso non vanno nella fine, confinano dalla parte degli eroi senza appartenenza, e in quei luoghi l’alba non è l’inizio, e si enuncia il fuoco e la supplica senza chiedere niente. Non c’è una servitù della sorte, è essa stessa, la sorte, un oggetto che tace; accetta.
Accetta il passaggio nei campi dei lupi, e per giorni, passa da certe veglie spezzate, la natura dei luoghi spianati, dove “l’eco getta i dadi”, la natura che si separa dall’uomo, dalla sua aria, la natura che si isola. E Cerere che passa con il suo colore verderame, nella liturgia della madre amorosa che concede il suo petto e poi lo nega, in una cerimonia che concede al nulla il clamore della polvere. Tutto si può comprendere, lasciando ad Alfonso Guida la voce del dolore che non vuole attenzioni uniche, ma ritorni imperfetti sui percorsi dei luoghi del sangue e della pietra, con l’odore dell’eucalipto che frammenta il respiro in pezzi di ricordo che entrano in noi, proteggendosi dall’incanto che termina in fretta, con l’aiuto anche degli “dei che d’inverno si mostrano nudi” a coloro che restano, mentre chi procede altrove, ha “il destino nel posto che lasciano vuoto”.
Ed io al contrario, procedo ancora restando fermo sulla riva che si sperde nel planare del falco sui monti, aspettando la nebbia di mezzogiorno che accompagna il corpo dei morti, ancora loro, degni, tanto da “rischiarare i giardini nel cuore dei boschi”; e credo ad Alfonso come credo a quella solitudine che ci accomuna e che esige la parola.
La parola che si fa sentinella di un avamposto dove in esilio stanno i prodigi delle fissità, fermi i fuochi sulle rive del Bradano e del Basento mentre la sacralità discende sulle rocce e vanno alti solo i rapaci, insieme al transito degli aironi. E la madre ci chiama a sé, ancora lei con la sua lingua morbosa, La lengua mammarol la definisce Guida, “la lingua morbosamente materna” di San Mauro forte, il paese d’origine del Poeta, a pochi chilometri da Matera, in quella “realtà che ha esaurito la sua dimensione temporale”. Una lingua che si fa anfora per contenere tutto ciò che l’altra lingua, quella lontana dal deserto, non può contenere. No, lì dentro non ci possono stare il geco ed il falco capovaccaro, una lingua che sta in mezzo al grano e che ci racconta i segreti del sottoterra dove non possiamo sapere se i ragazzi passano il tempo fumando la juta o si battezzano con due dita di vino. E ce la riporta con precisione Alfonso Guida, una precisione tale da non lasciarci quasi nessuno spazio di manovra lessicale, e mi accorgo di non poterne fare a meno dei suoi segreti decifrati dai suoi versi che precedono sistematicamente il mio scrivere, che ha ben poco di mio. Gli incontri del Poeta sono i nostri incontri, e sono coloro che popolano la moltitudine del suo sapere che mi accompagnano a decidere di cosa inebriarmi, senza prendere decisione alcuna per manifesta incapacità di separare bellezza da bellezza, parola da parola, silenzio da silenzio. Come ha scritto qualcuno, Alfonso ci benedice, ma il suo santuario è rovinoso di voli e di canti, e si beve pioggia e si ascoltano fiumi, e le litanie rovistano le prede ed i predatori. Si invoca ciò che è nascosto, che significa la negazione del perdono a chi non ha un peccato codificato, e l’immanente distribuisce supplizi con i dispensatori di verità, a volte sacrileghi, a volte dotati di mistero, ma in entrambi i casi resta agli invisibili la scelta del dolore.
Si invoca, ed io imparo; prendo appunti. È precisa la parola, ritorna a casa allontanandosi dalla consumazione del senso stantio, quello che ti applaude a gambe aperte ritmando la discesa negli inferi. Mi resta la sensazione non unica, leggendo e scarnificando i versi di Guida, che le ossa in profondità, contengano altra carne, ed altre traiettorie assolate e dense di acqua di fonte battesimale, da porgere agli orfani; a loro il dono.
E ad un tratto, l’ossido non è più la ruggine di quelle ossa ricche di ricordi senescenti, come di chi crede di aver visto tutto, e cerca quiete, minacciando a sé stesso di non morire.
Non possiamo darci al buio senza confessare di non rimpiangere la luce necessaria a far perpetrare l’insorgenza delle dimenticanze, quelle che sanno della prosecuzione della specie, dotate di volontà che vuole alloggiare negli egoismi, nominandoli in modi diversi, presumendo una serenità che ha il solo scopo di procedere in verticale.
Egli vive di “sole relazioni analogiche”, in autonomia serrata con la perfezione lacunosa del nume tutelare, e debbo fermarmi per apprendere ancora dove riconoscere l’insorgenza delle origini, dei corpi che sono anche i nostri, per altre vie di ribellioni che acquietiamo ognuno a proprio modo. In fin di pagina, il narrare resta personale, e odo una gentilezza d’animo che non ho da spiegare. Ed abbiamo da affrontare altre lotte, le nostre; che non risolvono alcun conflitto.
Sono abbastanza certo, che la prossima volta che sentirò Alfonso, mi racconterà di quel che non accade, invitandomi a stare insieme nel silenzio, riparandoci nel “vento dei boccioli a notte, un vento che promette una gioia serena e noi potremo dire: ecco il pero che fiorisce e parla sottovoce col mandorlo.”
(orazione)
Solitudine mia,
andremo al mare, cespugli nel sale,
grida di bambini
metà innamorati metà giustizieri.
I sassofoni, poi le pizzerie. E dove sarà gregge? E dove tram?
Sui fili camicie gonfie di scirocco, solitudine mia
viva di un ricordo che si moltiplica. E dirlo:
essere tristi senza temere. Così passano i giorni
pieni di uccelli e topinambur.
(specola)
Il destino del dono è cadere
come la spiga che resta nel campo
come il frutto nell’orto
IL TASSIDERMISTA
Alfonso Guida
“I Granati”
Terra d’ulivi edizioni
Alfonso Guida (1973) vive a San Mauro Forte, è cultore di Beppe Salvia, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, e Paul Celan. Alcuni suoi testi sono apparsi, tra le altre, sulle riviste “Poesia”, “Forum Italicum”, “La foce e la Sorgente”. Ha vinto i premi: Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte (1998); Montale con la plaquette Le spoglie divise [15 stanze per Rocco Scotellaro] (2002). Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Il dono dell’occhio (Poiesis 2011); Irpinia (Poiesis 2012); Ad ogni passo del sempre (Aragno 2013); L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle 2014); Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale 2015); Luogo del sigillo (Fallone Editore 2016); I penati (Gattogrigio Editore 2021); Conversari (Round Midnight 2021); il diario in prosa Diario del transito, disponibile in rete; le plaquette: Via Crucis, Note di terapia, Nous ne sommes pas les derniers; la presente raccolta Il tassidermista, è uscita per i tipi di Terra d’ulivi edizioni nel 2022.