Anton Cechov, l’incastro delle tre scatole cinesi e il paradosso della semplicità incomprensibile

 

 Che la “considerazione” letteraria di autori inseriti a pieno titolo nel Pantheon della letteratura mondiale, giunga successiva alla loro operatività, è cosa purtroppo nota.

A questa bizzarra regola, se così possiamo definirla, non è sfuggito neanche Anton Cechov, considerato al suo esordio, nonostante la fama immediata, uno scrittore minore, ascrivibile al club dei capaci di produrre solo “fatterelli”. Un minore rispetto a coloro che lo avevano preceduto, i giganti della letteratura russa Tolstoj e Dostoevskij, fino quasi a convincersene personalmente. Autori considerati minori ma legati in modo inevitabile al periodo nel quale si trovano ad operare con la loro arte. E tale periodo ricade su di loro con l’inclinazione luminosa del momento storico di riferimento. E quello di Cechov è nel buio del tramonto di un impero, in quel crepuscolo, che in agguato pare ad ogni passaggio di consegne tra un secolo ed un altro (sarà che noi si sia proprio in un periodo simile?), il buio che porta il salto nell’ignoto per chi resta nostalgico verso ciò che ha vissuto in posizione comoda, così come la storia gli ha assegnato, in opposizione alla speranza per qualcosa di nuovo, portata dall’eccitazione cieca verso ogni rivoluzione che si rispetti, per esserne poi miseramente delusi nella concretezza dell’inadatto agire umano.

Gli eventi rivoluzionari dell’Ottobre nulla potevano avere in comune con i “vecchi” personaggi del teatro di Cechov, grigi di una vecchia quotidianità. Vengono descritti come figure a casaccio, senza azione. Ma nell’accadere di ogni avvenimento traumatico che ha come principale scopo quello di cancellare ogni traccia di ciò che prima c’era, succede che si considera marcio anche ciò che non ha ancora dato in modo completo i propri frutti, frutti al di là di ogni epoca. E questi, vengono colti d’improvviso e come per “miracolo”, nelle -Tre sorelle – dove la profezia di Tuzenbach viene attualizzata ai nuovi avvenimenti in corso: < L’ora è scoccata, si avvicina per noi qualcosa di grosso…>, qualcosa che spazzerà via con violenza la putrida noia della vecchia società. Ma questa rivalutazione non è ancora unanime, là dove emerge anche l’aspetto umano dell’autore che si contraddistingue per il suo coraggio nell’aiutare i più deboli con la sua opera di medico e benefattore, in contrapposizione ai suoi personaggi meschini e suscettibili di ridicolaggine.

La semplicità del linguaggio con il quale l’opera di Cechov si esprime, per paradosso, pare procurare incomprensibilità sfiorando l’ambiguo.

Si è di fronte a dei cinici, oppure a saggi e comprensivi esseri umani? Dov’è la verità, nel personaggio o negli occhi di chi lo guarda? Possiamo dire di essere al di là della disperazione, sottoscrivendo la seguente dichiarazione: “l’arte non è una vera via d’uscita, è una via d’entrata verso la sofferenza”. Sempre nelle -Tre sorelle- con nichilismo si afferma che “sapere o non sapere è lo stesso”…

E per noi che siamo nel ventunesimo secolo, sapere o non sapere, ciò che accade in quelle parti del mondo dove il peggio si sussegue con la consuetudine di un gesto quotidiano, alla fine del giorno, resta lo stesso?

Riprendendo il filo iniziale di questo scritto, e sintetizzando in modo ulteriore, si può ancora aggiungere che l’interiorità delle figure che popolano “Il Gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi, porta a dei monologhi dove la non presa di posizione nel tema, esprime il concetto “dell’esposizione dei problemi da parte dello scrittore in maniera corretta, ma non della loro risoluzione”. La nostra società (quella di Cechov?) è supponente e sospettosa, e cerca di ignorare quello che non riconosce, o al peggio considera sovversivo, e che giace sotto una superficie di apparente normalità.

Dissipare l’ignoranza, uno sforzo arduo, ma non per questo da non perseguire a priori.

E chi può compiere questo sforzo se non colui che prende consapevolezza della propria coscienza? Certo accade che tale consapevolezza è differente da uomo ad uomo, o possiamo constatare finanche l’inganno della coscienza, di colui che dice di avercela ma in realtà così non è. Per dirla come l’autore, siamo dalle parti dell’ambiguità, e restando perplesso egli stesso, preferisce non prendere posizione.

Una posizione che invece toccherebbe al lettore assumere, facendo un’operazione di scavo nello spazio ampio che c’è tra l’apparire e l’essere. Il comportamento di Cechov, così come ci viene fatto notare, è paragonabile a colui che in presenza di una insufficienza di prove, non assume su di sé l’autorità del demiurgo ma sospende il giudizio.

La novità del teatro di Cechov consisteva nell’aspetto poetico che non poteva essere escluso dal comportamento degli interpreti. La pagina poetica che fino ad allora si ritrovava solo nei romanzi, doveva entrare in scena, sotto forma di pioggia, di nebbia che si leva dallo stagno. E fu proprio Stanislavskij (divenuto poi famoso tra gli attori per il suo metodo) ad intervenire sulle assenze, con una fondamentale operazione di ricerca interiore anche là dove vi era solo silenzio.

In successione, la grandezza dell’autore, ha ribaltato il primordiale e superficiale scetticismo, dimostrando come le sue opere e la conseguente messa in scena, siano dotate di una molteplice chiave di lettura; ben altro che “fatterelli”.

Riportiamo qui una importante nota di Giorgio Strehler che definisce il teatro di Cechov come l’incastro delle tre scatole cinesi: nella prima c’è il racconto, la vicenda con i suoi personaggi come appaiono a prima vista; segue la scatola che contiene la Storia nella quale la vicenda privata va ad iscriversi; per finire con la scatola della vita umana che le contiene entrambe. È quindi necessario portare alla luce i contenuti di tutte e tre le scatole in contemporanea, altrimenti concreto è il rischio di una resa tarpata nel suo significato.

In conclusione, quanto è stato per necessità di spazio sommariamente trattato, ci riconduce ad una visione d’insieme per nulla circoscritta ad uno specifico periodo di riferimento, riportandoci considerazioni perenni quali: la crisi esistenziale dell’uomo, la sua perdita di valori o di fede, fino alle estremità del silenzio e del vuoto.

Ed ancora oltre, in quell’attesa dell’indefinito, quando il nostro percorso di esseri umani sarà giunto al suo compimento, con l’esaurirsi di ogni rotta sbagliata intrapresa; lì troveremo i resti dell’attesa di Godot.

Breve nota a margine dell’autore. Ho creduto di leggere e sentire in questi ulteriori infausti giorni di guerra, qualcuno chiedere un boicottaggio della letteratura russa…

Beh, posso provare ad immaginare che nemmeno Cechov sarebbe stato in grado di dare vita ad un simile “qualcuno”.

 

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