Ciò che non è adatto a risorgere. “Verranno a perderci in trionfo” di Francesco D’Angiò

Ciò che non è adatto a risorgere – “Verranno a perderci in trionfo” di Francesco D’Angiò

Una raccolta che ne erige la poetica

 

Osservato da lontano, l’insieme dei testi che compongono la nuova raccolta di Francesco D’Angiò “Verranno a perderci in trionfo” (G. C. L. Edizioni, 2022) è simile a una metropoli in cartolina. Ogni poesia sembra possedere e sfoggiare una robustezza apparentemente impenetrabile sia nello stile che nel contenuto. Disposte in fila nella landa del supporto cartaceo, le poesie formano sezioni come se fossero quartieri e strade come se fossero case. L’identità della maggior parte di esse è affidata a un numero civico – “Testo N. X” – che non ne scandisce l’ordine, ma il quando; il momento dove la tal lirica ha lasciato la penna (o la vena) del suo autore. S’inizia con il Testo N.1, si passa subito al N.13, si lascia la sezione, e scopriamo che la successiva è aperta dal N.12. A separare i testi, più che la distanza aritmetica o geografica, è il tema; una variazione di quello centrale, che per il poeta era ed è ancora il tempo, in ogni sua esperibile manifestazione.

Scrivo “ancora” perché già in “Clessidre orizzontali” (Edizioni Tripla E, 2021), Francesco D’Angiò, classe 1968, aveva affrontato la questione, facendo trasparire una consapevolezza di fondo in grado di tradursi in poesia e mostrare come anche lui, autore della metafora, fosse ricorsivamente un granello di quelle stesse clessidre. Perché umana è la poesia e poetica è l’umanità di Francesco D’Angiò, scrittore originario della provincia napoletana, autore del romanzo breve “Lo sconosciuto” (Planet Book, 2020), ma che ha esordito nel 1997 con il racconto “Siamo tutti normali”, vincitore di un concorso letterario per esordienti. Umana è la percezione del tempo, il quale, a sua volta, senza di noi esisterebbe solo attraverso le stelle e altri corpi celesti. Umana è la fede scettica o la disillusione con riserva che permea i versi chiaroscuri di questa raccolta, suddivisa in quattro parti, nell’ordine “Una vita in prestito”, “I secondi abbandoni”, “La disperanza”, “Un ateo che crede in Dio”. Umana è la luce che, di tanto in tanto, si scorge dalle finestre dei complessi letterari edificati dall’autore: una coppia di versi a metà corpo, una chiusa agrodolce, una parola sull’uscio del monolocale di turno (nessuna poesia di D’Angiò presenta una suddivisione in stanze).

La metafora del complesso edilizio e della lirica come casa si prestano bene per descrivere la densità estetica e intrinseca di queste poesie. Il mio giocarci su non è un fare il verso allo stile del loro autore, ma un occhiolino a un suo vezzo – che in poesia, talvolta, è ciò che ne contiene l’essenza –, la capacità, cioè, di affidarsi a quelli che potremmo definire banalmente giochi di parole per spianare la strada a un’interpretazione diversa dei significati che attribuiamo alle cose della vita.

Non a caso il titolo “Verranno a perderci in trionfo” raccoglie in sé uno dei tratti distintivi di D’Angiò, ossia il ribaltamento dell’illusione, che però ha senso solo in seno alla conservazione della stessa.

In filosofia vi è il concetto hegeliano di Aufhebung, l’atto dialettico del “superare-conservando” ciò che nello sviluppo del pensiero filosofico si frappone tra il punto di partenza e il progresso. L’ostacolo non deve essere abbattuto, né arginato, ma va piuttosto usato come leva per compiere il balzo.

In questo senso, la poesia di D’Angiò passa attraverso i dolori che costellano l’esistenza non per cancellarli, ma per superarli. Così come il dubbio è necessario alla fede, la non-poesia della vita – fatta di occasioni fallite e di miserie sia materiali che emotive – è necessaria alla poesia. D’Angiò lo sa, ma non fa proclami; non si erge a vate, non si abbassa ad outsider. Nel linguaggio che usa non vi sono esperimenti, rime forzate, sacche prosaiche. Apparentemente non canta neanche l’universale, preferendogli un mondo personale così personale e nascosto da essere di difficile collocamento, in un ipotetico immaginario collettivo.

Di mestiere e doma inquietudine, il poeta che D’Angiò ha scelto di essere è il poeta che non poteva fare a meno di essere.

Raramente, infatti, ho trovato una corrispondenza biunivoca così marcata tra il vissuto della persona – quello esternato dai versi – e il linguaggio poetico al quale quella persona, in veste d’autore, affida il ruolo di Magic Box, la scatola dove gli elementi di una funzione devono passare per combinarsi e produrre il risultato. La scarto tra persona e maschera, leggendo le sue poesie, sembra minimo, ridotto all’osso, proprio grazie all’uso sapiente di tale tipo di linguaggio. Ed è uno scarto tanto piccolo quanto prezioso, che racchiude in un solo spazio sia la sensibilità linguistica di D’Angiò (fissa, immobile come il motore aristotelico), sia la sensibilità emotiva che egli mette al servizio della poesia.

Per questo motivo, limitarsi a dire che l’autore fa un uso semplice del linguaggio banalizzerebbe la portata di tale semplicità. Perché è attraverso di esso che si ha la sensazione – viva ed estremamente potente – di fare la conoscenza del lato più personale di D’Angiò, pur attraverso il filtro delle impalcature poetiche, delle immagini rarefatte, delle metafore cerebrali, del nulla che sembrano voler restituire certi testi, alcuni dei quali passano addosso come nebbia e addosso lasciano poi, nelle ossa, l’umidità che le fa dolere a distanza di notti. Ogni poesia pare racchiudere una serietà d’intenti smorzata dalla spensieratezza – o dalla disperazione? – di chi gioca sapendo di aver già perduto. L’autore stesso si confonde nella folla di parole che a sé chiama per dare un’immagine all’ignoto, al sé dall’altra parte dello specchio, ora futuro, ora passato, ora e sempre al vaglio di chi è chiamato ad attuare la realtà della contingenza: quel Dio che non è il dio di nessuna religione rivelata, ma incarna in ugual modo speranza e condanna.

 

(…)

Ed è consueto sentire sulla fronte

il confuso segno che ci unge, perché

ci siamo caduti presto dentro

con prontezza di riflessi. Ci stiviamo

clandestini a bordo della nostra palude

dove siamo capaci di limpidezze

incontrollate, e non meno torbido

è questo giudice che declina in nomi

date e ore, ciò che non è adatto

a risorgere.

 

(Testo N. 117)

 

I miracoli sono tali in virtù della loro eccezionalità. Lo stupore che provocano nell’immediato coltiva sottotraccia la sensazione di essere destinati alla norma. L’offerta prodotta dalla religione – l’opportunità che vi s’intravede e spinge a credere quando l’amore disinteressato per Dio non basta – consiste nella possibilità di strappare scampoli di questa grazia, mentre si attende o di essere scoperti nel nostro nascondiglio o che la nave attracchi in un porto sicuro. Per il poeta, è Dio a essere immagine e somiglianza di noi umani, clandestini del viaggio che è la vita. Ultimi tra gli ultimi, ma in grado di compiere “limpidezze incontrollate”, creando squarci di luce, aprendo finestre tra i mattoni. Il D’Angiò clandestino, lo sconfitto dalla vita – parte di quel tutto che è ciò che non è destinato a risorgere –, lo fa attraverso la sua poesia più matura e consapevole, con un libro come “Verranno a perderci in trionfo”, che ne fondamenta e ne erige con completezza la poetica.

 

 

Il fotografo del campo

 

Mi fischia un orecchio ed il nome non è

sulla scatola dei biscotti,

ma nel dito sottratto all’indicazione del cielo,

nella foto ufficiale senza carne,

nel gruppo sanguigno del dolore.

Il compito svolto è dimenticare.

Allo scatto, ci fanno la fossa

che non occupa spazio,

andremo diretti dalla colpa

al monumento che ci solleva tutti.

Siamo finiti per caso

nel turno che ci espande

fino alle risposte che vi darete,

chiedete pure senza fare domande.

Prendete pure, i chiodi sono già

negli assi, e non c’è farina

che alteri il vento,

mi metterò in posa fino a che non svengo,

verrò bene nell’aria

somigliando alla consistenza di Dio,

nella quiete dell’orto, inutile quanto basta.

 

 

 

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