FABRIZIO DE ANDRÉ E LA VOCE IMMORTALE DELLA SUA MUSICA

FABRIZIO DE ANDRÉ E LA VOCE IMMORTALE DELLA SUA MUSICA

 

11 gennaio 1999, muore Fabrizio De André. La notizia giunge inaspettata e lascia tutti in un silenzio attonito e sgomento. Da allora – sono passati 24 anni – siamo orfani della sua voce, della sua poesia, della sua etica di compassione e di pace.

Fabrizio cantava gli ultimi, i diseredati, gli oppressi, i diversi e li accarezzava e li rigenerava con le sue parole rendendoli “fiori nati dal letame” e contrapponendoli al niente nato dai diamanti; racconta di questi senzadio, “per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli” (F.D.A.). L’invito è a non giudicare e a non condannare da “buon borghese” (cfr. La città vecchia), ma a riflettere lasciandosi trasportare dalla umana compassione e allora queste creature si scopriranno, anche se non gigli, figli, vittime di questo mondo, “creature della vita e del dolore”, come diceva anche Umberto Saba, fiori che nascono dal letame, appunto, e si ritroverà l’infinito nell’umiltà.

Fabrizio parlava di pace mettendo in evidenza l’insensatezza di ogni guerra: “il sangue del Principe e del Moro arrossano il cimiero d’identico color” (da “Re Carlo torna dalla battaglia di Poitier”); “E mentre marciavi con l’anima in spalle, vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore” (La guerra di Piero); e l’antimilitarismo è espresso anche in Girotondo che sulle note di una famosa filastrocca per bambini (“Oh, che bel castello marcondirodero…”) esprime tutta la follia della guerra che non salva nemmeno i bambini: «Una delle pagine più intense e drammatiche dell’intera cantata. Vi si narra come la spietata follia dell’uomo abbia scatenato la guerra atomica, e di come la terra ne sia andata distrutta. Solo i bimbi sono rimasti vivi, a continuare un assurdo girotondo che li trascina, gradualmente, alla pazzia. E su tutto aleggia un terribile monito, “chi ci salverà?”» (F.D.A.). Ai bambini non resterà altro che giocare alla guerra, una guerra fratricida che è bestemmia contro ogni Dio e ogni uomo.

Fabrizio parlava di Dio. Il pensiero di Dio percorre e attraversa in lungo e largo i suoi testi: basti pensare che il termine “DIO” ricorre 88 volte nei suoi testi. Accanto a Dio c’è il Gesù uomo, che Faber ama e ammira come esempio di “anima salva”, cioè libera dalle pastoie del potere e del giudizio, “anima salva” perché capace di autodeterminarsi e di seguire l’unica religione per Fabrizio davvero valida: la religione dell’amore che porta con sé un atteggiamento di misericordia e che sfocia nell’atto supremo del perdono. E nell’uomo Gesù ognuno potrà riconoscersi, come Tito, il ladrone buono, che alla fine muore riconciliato con la vita e si riappropria della sua umanità a cui aveva rinunciato da tempo: non sapeva provare dolore né amore e dalla rabbia, guardando l’uomo Gesù che muore senza rancore, passa alla compassione e quindi all’amore: “io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore” (da “Il testamento di Tito”).

E in quest’ultima strofa Fabrizio raggiunge l’apice più sublime di una spiritualità talmente profondamente umana che tocca il divino.

È per questo che Fabrizio De André è immortale, come immortali sono tutti i grandi Poeti che travalicano il tempo ed entrano negli spazi dell’eterno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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