Il Galateo in Bosco, ovvero la familiarità con l’incomprensibile bellezza

Il Galateo in Bosco, ovvero la familiarità con l’incomprensibile bellezza

 

La disperazione ha l’ordine del senso incomprensibile per chi da vivo soggiorna nel regno dei morti, da dove portano in dote ciò che ai non disperati occorre per stare nelle regole. E per loro resta la poesia che li salva dalla comprensione. Ma quale poesia? E da quale comprensione ci si deve salvare? E che attinenza ha la disperazione con tutto ciò? 

Ponendoci di fronte ad un testo, nell’atto della lettura, o confrontandoci con l’arte in generale, la prima cosa che ci auguriamo e che sia di facile comprensione? Dobbiamo forse sentirci come quei registi che dopo aver girato la prima scena, esclamano “buona la prima”? E l’intimo segreto della poesia, o della letteratura, dov’è, se tutto viene svelato al primo passaggio, se appare subito superfluo un ritornarci su per cogliere altre sfumature, svelare codici all’apparenza incomprensibili, cogliere in divenire emozioni su emozioni. Badate bene, così da sgomberare subito il campo da fraintendimenti strumentali, che non si vuol fare apologia di oscurità fine a se stessa, o di difendere elucubrazioni pretestuose affinché si possa dividere un certo tipo di letteratura tra “alta” e “bassa”, perché non è proprio questo il punto. Prendiamo ad esempio un’opera come “Galateo in Bosco” del poeta Andrea Zanzotto: l’ammettere ad una prima lettura, una certa difficoltà di comprensione, la fa retrocedere in qualche posto oscuro? O al contrario non dovremmo avvertire un piacere e una bellezza da scovare con una operazione attenta e capillare, superando proprio quella schematicità iniziale nella quale ci pare di essere destinati come pedine di un mosaico codificato, come se fossimo dei commi di un regolamento che vuol definire il tutto a prescindere, perché per stare all’interno della nostra organizzazione sociale, bisogna rispettarle le norme del “Galateo”, e finanche in guerra ciò può accadere. Può accadere di ritrovarsi a rispettare “Il Galateo della Morte”. Ora, vorrei fare un passo indietro e riportare una riflessione colta in rete, riflessione espressa come una sorta di difesa d’ufficio della poesia “semplice”, con annessa difficoltà in termini di definizione precisa, su quel che vuol significare “semplice”. Capovolgendo gli estremi di questo disquisire, e partendo da ciò che semplice non appare, come definiremmo dunque la poesia di Zanzotto del Galateo in Bosco

La compiutezza di un percorso di lettura si può definire tale quando possiamo affermare di aver compreso ogni passaggio in un tempo determinato e relativamente breve? E se al contrario pensassimo ad una poesia in divenire, ad una poesia che ci precede e che cerca essa stessa una strada tutta da tracciare, una provvisorietà della poesia simile alla provvisorietà della nostra esistenza, con un verso, una frase che da sola è già poesia pronta a consegnarsi ad un’altra, in una sorta di staffetta semantica per tentare di raggiungere vette inesplorate. E del resto, non abbiamo ogni giorno un appuntamento con l’ignoto, con un qualcosa che non sappiamo, anche in quel procedere che sembra già tutto scritto, in quel non accadere che ci tiene in serbo il finale. Il compito di colmare quelle mancanze che crediamo di ravvisare in un testo non “semplice”, non è forse il nostro più importante? Dov’è il vero punto di rottura con ciò che ci circonda, nel continuo fare consolatorio a conservazione della specie? Cosa c’è di più inconciliabile di un “bosco” e di un “galateo”, ed è la fuga verso la strada meno tortuosa quella che sempre ci deve contraddistinguere per semplicità di rassegnazione finale?

Eppure nell’opera di Zanzotto ciò che parte in separazione, si compatta e si storicizza nei luoghi del poeta, raggomitolando le distanze del lettore dal punto di sedimentazione massima della sofferenza, il divenire sacrale dell’ossario dei caduti della grande guerra. Il Bosco si riprende le ossa, di noi che coniughiamo forme ( Il Galateo) per un vivere civile che deraglia nella primitiva veste che mai del tutto ci abbandona. In uno stesso luogo si scrive e si smonta la struttura in ogni singolo primordiale elemento per aprirsi ad una relazione “senza luogo e per ogni luogo”, dove il confine ha il suo senso nel superamento dello stesso, posizionandoci su ogni soglia per il suo superamento, servendoci della parola che si dà a noi e che noi restituiamo con l’incarico di essere in continua apertura e ricerca, senza alcuna sottomissione ad una “semplice” definizione che la vorrebbe prigioniera in un significato statico, liberando il significante dalla sua sottomissione al significato (con le parole proprie di Zanzotto).

Il mettersi con continuità in discussione, con l’approccio necessariamente problematico del poeta nel suo cogliere tutte le tensioni esistenziali, “servendosi” della nascita misteriosa nella quale la poesia si origina per poi dileguarsi con coscienza ed incoscienza, balbettando ed esibendo un’armonia che raccoglie strada facendo sempre nuovi elementi, non può essere relegato nella categoria dell’esercizio di stile, facendoci correre il rischio di rinunciare in partenza al tentativo di comprensione di profondità di senso che sono essenziali per la vita stessa della poesia, e della letteratura in generale. Nello specifico del Galateo in Bosco, il senso del territorio del Montello, per il poeta di Pieve di Soligo, gli Ossari dei caduti, l’umanità che distrugge e marchia la terra col sangue, determinando addirittura una lunga faglia definita per l’appunto “Linea degli Ossari”, una lunga ferita inferta alla terra, ai luoghi simbolo di una poesia che non può essere relegata nella sola definizione di poesia difficile privandoci di un significato ben più grande, un significato che non può che andare oltre ciò che appare “a portata di mano”. Diventano dunque necessari i riferimenti lessicali, la molteplicità tematica, altro che sovrastrutture e appesantimenti sintattici, ed è la provvisorietà del senso la massima forza di espressione, il tormento che si fa necessità di ricerca. L’astrazione non può essere l’etichetta da apporre con modalità frettolose da tuttologi, a ciò che rema contro l’ordinarietà semantica e che cerca di mascherare una frustrazione ammantata di “pigrizia cognitiva”. 

Per concludere, rischiando il paradosso in cotanto dire in questa parte d’universo, non sarebbe la soluzione migliore e concorde ai più, quella che distingue soltanto tra bella poesia e brutta poesia, che se è brutta non può che essere solo una contraddizione in termini? E non credo si debbano ancora attendere i posteri per l’ardua sentenza.

 

“Buoni ossari, tante morti fuori del qualitativo divario

  onde si sale a sicurezza di cippo, 

  fuori del gran bidone (e la patria bidonista,

 che promette casetta e campicello 

 e non li diede mai, qui santità mendica, acquista).” 

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