Il percorso peritale e l’arte come strumento di ascolto per l’infanzia abusata

di Yuleisy Cruz Lezcano

Quando un bambino o un adolescente vive una situazione di abuso, che sia fisico, psicologico, sessuale o emotivo, il trauma non sempre si manifesta attraverso parole. Spesso si nasconde in silenzi improvvisi, comportamenti regressivi, crisi di rabbia, ipervigilanza, o in un’apatia che sembra inspiegabile. Per questo, riconoscere l’abuso richiede strumenti sofisticati, empatia e, soprattutto, uno sguardo multidisciplinare.

Il percorso peritale è una procedura giuridico-clinica attivata nei casi in cui si sospetti che un minore sia stato vittima di violenza o abuso. Si tratta di un’indagine delicata e complessa, richiesta da un giudice o da un pubblico ministero, finalizzata ad accertare: la credibilità del racconto del minore; la presenza di danni psicologici riconducibili a situazioni traumatiche; l’eventuale responsabilità dell’adulto coinvolto. Durante il percorso, lo psicologo forense o lo psichiatra infantile svolge una serie di colloqui, osservazioni e test, tenendo sempre conto dell’età evolutiva del minore, della sua capacità narrativa e della possibilità che il trauma sia ancora in parte dissociato o non elaborato. La valutazione dell’abuso non si affida mai a un solo indicatore, ma alla coerenza di più elementi clinici, narrativi e comportamentali a strumenti come i colloqui clinici e strutturati, la proiezione e a scale comportamentali, che rilevano anche alcuni sintomi caratteristici. Comunque, durante l’infanzia è fondamentale l’osservazione del gioco simbolico. Il compito dello specialista è delicato: evitare suggestioni, rispettare i tempi del bambino, mantenere uno sguardo neutrale ma profondamente umano. Accanto agli strumenti clinici, esistono spazi educativi in cui le emozioni possono affiorare con spontaneità e senza forzature. La scuola, in particolare, può diventare un osservatorio privilegiato: i bambini passano molte ore con i docenti, ed è proprio nella quotidianità che possono emergere piccoli segnali di sofferenza. Per questo, la collaborazione tra insegnanti, pedagogisti, artisti e poeti può generare ambienti protetti in cui la parola, il gesto, l’immagine diventano strumenti espressivi potenti. Bisogna però anticipare che l’insegnante non fa diagnosi, ma può diventare un prezioso testimone e alleato del benessere del minore, capace di attivare il confronto con i servizi quando percepisce segnali significativi.

Non tutti i bambini hanno il coraggio o la possibilità di denunciare un abuso. Ma quasi tutti lasciano indizi, tracce, gesti, parole che attendono solo di essere riconosciute. E qui, l’intreccio tra ricerca clinica e creatività educativa può fare la differenza. Una scuola che lavora con poeti, terapeuti, pedagogisti e artisti non solo arricchisce il percorso formativo, ma diventa uno spazio dove anche il dolore può trovare voce, senza essere giudicato né negato. Perché aiutare un bambino a raccontarsi – anche tra le pieghe della sofferenza – significa dargli la possibilità di rientrare in contatto con sé stesso, di essere creduto, e infine, di ricominciare.

 

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