In memoriam, recensione dell’ultimo libro di poesie di Vincenzo Calò

 Recensione dell’opera “La sicurezza e il pensiero cardiopatico” (Versi non contemporanei, di più…)   di Vincenzo Calò 

 

Nel parlarvi di quest’opera letteraria in versi, scrivendone, vi voglio subito proporre un’immagine, l’immagine di quelle luci in lontananza, di sera, che sembrano occhieggiare agli sconosciuti; sono perfette per smarrire il pensiero. Perché bisogna smarrirlo, per ritrovarlo poi nell’unico luogo possibile, un luogo a noi ignoto, e occorre, così, leggere in fretta certe parole che s’inseguono, con la precisione di “non capire”.

Perché come scrive in prefazione Sergio Tardetti, capire è un’azione razionale della mente, mentre comprendere, è l’esatto contrario, vuol dire accogliere ciò che è fuori dai nostri schemi razionali, ed è proprio verso la comprensione che ci conducono i versi di Vincenzo Calò, poeta nato a Francavilla Fontana (Brindisi) nell’82. Ci conducono verso quel luogo ignoto che ci accoglie. E sarebbero da evitare anche le pause nemiche della bellezza che non deve essere capita, occorre leggere tutto d’un fiato per accoglierla quella bellezza, non analizzarla schematicamente con modalità asettica. E dopo aver finito, riprendere di nuovo con più velocità fino a quando non ci finiamo dentro, nella verità che non ci appartiene, e ogni parola è il caos della ragione che costruisce il suo ordine, lettera su lettera si tesse la trama rigorosa  del significato; e a quel punto, si può procedere con lentezza. La lentezza necessaria a rimuovere le stratificazioni che nascondono per bene il nucleo della poesia di Vincenzo Calò.

 

Perché ciò che si nasconde è tale soltanto per chi non ha voglia di cercare, e né si predispone ad essere inghiottito dalla “Lungimiranza”(titolo di una delle poesie contenute nella prima parte della raccolta). Molto più comodo resta l’essere neutrale di fronte a ciò che è male, fino al punto di riservare un interesse maggiore per un “libro di cucina”. Salvo poi scoprirci in ritardo quando il disagio ci coglie in prima persona, e ci scorgiamo a ritroso nella ricerca del punto di rottura, là dove le nostre certezze sono fuggite via approfittando della nostra assenza. Giunge allora il tempo dei bilanci che non quadrano, e tutto ciò che abbiamo lasciato fuori, ci ritorna addosso ricoprendoci di ansie che credevamo non fossero le nostre. “Ci sentivamo belli ma la nostra pelle si è incattivita”; questo ci rammenda il poeta. Ce lo rammenda venendoci a prendere da quel blocco cognitivo, al di fuori del quale i parametri della normalità subiscono una revisione strutturale. Ma dove aleggia questa normalità? La possiamo ritrovare forse in un’applicazione di messaggistica attraverso la quale si possono veicolare le ideologie a stomaco pieno? Anzi, deglutite in modo rapido. In questa normalità codificata, si possono comprendere ed eseguire rivoluzioni rigorosamente iscritte ai “social media”, ed è sufficiente seguire le istruzioni che i rivoluzionari con la loro immagine ben curata, si tatuano su sé stessi. E così facendo, possiamo trattare di tutto, aggirando anche il consiglio di chi qualche secolo prima di noi, ci aveva detto che “Bisogna essere dei grandi ignoranti per rispondere a tutto quello che ci viene chiesto.”(Voltaire)

E ci viene chiesto di correre, di essere ovunque come degli ologrammi moltiplicati all’infinito, e che alla fine si ritrovano a danzare intorno ad un enorme disagio che a dismisura cresce, costringendoci in riserve luminose fatte di carrelli colmi d’insoddisfazione, e di silenzi, portatori insani di parole a difesa di malinconici compartimenti stagno. Ma ecco che l’antidoto a tutto questo, ci viene in soccorso, in soccorso di chi si accorge di una malattia così subdola, e quell’antidoto è la poesia… la bistrattata poesia. Ed i poeti come Vincenzo Calò, se la caricano sulle spalle e sono disposti a portarla per ognuno di noi. Dobbiamo solo non lasciarci ingannare dalla robusta stratificazione di parole con le quali questa poesia si esprime, dove diviene funzionale quel corto circuito semantico che azzera un apparente non senso, per ricominciare in un unico significato più che concreto. La concretezza di tematiche  quali la precarietà del lavoro, la disumanizzazione di interi settori della nostra società; un disagio profondo e ramificato, per l’appunto. E quanta fragilità, ci è piovuta addosso nel mentre ci credevamo quasi immortali, con la pandemia da Covid-19. Di questo, l’opera in questione, si fa testimone pregnante, stratificando su di essa i temi fondanti del nostro quotidiano vivere. Ci colpisce forte Vincenzo, con il classico pugno allo stomaco, e non salva nulla e nessuno, alla ricerca di una catarsi collettiva. Al di fuori di ogni metrica, spinge forte il piede sull’acceleratore di un’analisi cupa, in uno scenario collettivo da “alba del giorno dopo”. Favorito in questo, per usare un ossimoro, dall’ambiente in cui l’uomo Vincenzo Calò si trova a vivere la sua quotidianità, a pochi chilometri dal mostro di fuoco fumo e polvere, l’ILVA di Taranto. Quel mostro che ha fatto di un lavoro, il peggiore dei mali necessari.

Un bene necessario è invece questa poesia, che non indulge e non vuole addolcirla quell’aria divenuta irrespirabile. Se prendessimo a caso da uno dei testi di questa doppia raccolta, un verso, e poi un altro, ed un altro ancora, ci ritroveremmo ad essere il bersaglio dei fendenti del poeta, lanciatore preciso di acuminate parole, destinate ad “un popolo” fatto non di esseri umani, ma di clienti, un flusso continuo di saltimbanchi mutanti, in viaggio su nuvole di pressappochismo. Un verso straordinariamente rivelatore, è quello che ci riconosce senza attenuanti: “Ci piace usare l’indifferenza allo scorrere di telegiornali…”(Velocemente).

A dire il vero, ce ne sarebbero anche altri, a cercare con estrema cura ed attenzione nelle due raccolte, introdotte, la prima, da un pensiero di Papa Francesco, e la seconda, da una riflessione di Giorgio Gaber. Il sacro e il profano, potremmo con semplice sintesi definire, ma la strada da percorrere resta ancora complessa. Le acrobazie verbali si susseguono con rapidità, facendo a volte anche fatica ad apprezzarle tutte, la buona fatica. E mentre ancora leggiamo, ormai con la dovuta calma, la precisione chirurgica di un altro pensiero, ci rimette in riga. E accade d’incontrare anche l’amore, così poco frequentato, perché in fondo, Vincenzo, vorrebbe che questo nostro mondo fosse anche migliore del paradiso. Già, vorrebbe…Un mondo da poter apprezzare senza dover frequentare un corso di autostima, per poi ritrovarci tutti insieme sugli smartphone, in attesa che ci mandino la posizione per la felicità. La felicità di poter avere tutto a portata di mano, finanche un pianeta lontano, e raggiungere, così, traguardi sempre più impensabili, restando però fedeli alla tradizione, della miseria, della guerra, del male da spalmarci come la crema per il sole, che renderebbe inutile anche la fine, tanto ne conosciamo già tutti gli aspetti salienti mentre le andiamo incontro. “Perché stiamo mutando in un niente tutto da dedicare a Dio.”

Esiste una regola per ogni follia snaturata della sua ragion d’essere, ce le siamo date tutte le regole, smontando e rimontando un puzzle esistenziale che segue gli algoritmi delle maggioranze di turno, e se capita il turno che si deve morire lavorando, possiamo solo biasimare le statistiche dei malati di cancro in aumento. (Diritto Penale)

Così, restano solo i poeti come Vincenzo Calò, a comprenderla questa umanità, plasmando figure d’orizzonte con la buona volontà (Comprendendo L’Umanità).

Con la fortuna di controllare desideri che mutano per ucciderci (Da Taranto). Con la fortuna che abbiamo di stare tutti insieme pur nella distanza di ogni punto del mondo, pur nella potenza di una solitudine che ci rende indipendenti.

Così facendo, senza muoverci dai nostri perimetri di cellule, abbiamo anche imparato da sentenze illuminate, che la colpa resta nostra se ci lasciamo seppellire per troppa pigrizia di morire.

Un elenco di occasioni perse, al quale si aggiungono voci e pagine, e il termine di scadenza è spostato sempre più in là, con una serietà a margine ridotta in forma di macchietta, senza la nobiltà di quest’ultima.

Possiamo però consolarci con le domande e le risposte che ci confezioniamo su misura, servendoci del vocabolario della lingua italiana con fare del tutto opinabile.

E “Tanti Auguri” a noi, perché ce la possiamo fare, in fondo basta dotarsi di un account che ci liberi della verità.

Sono gli auguri che il poeta ci fa alla fine, (forse), della sua duplice opera in un corpo solo.

Il dodici di ottobre di quest’anno, Vincenzo è andato altrove, non so bene dove, ma sono certo che ovunque egli si trovi, continuerà a prendersi gioco dei suoi demoni interiori (e dei nostri), resi incapaci di trovare una via d’uscita, affinché duri quella “stretta poetica che impedisce le prospettive di miseria del mondo (André Breton).

 

La Sicurezza e Il Pensiero Cardiopatico “Versi non contemporanei, di più”…

di Vincenzo Calò

BERTONI EDITORE

Prima edizione: ottobre 2020

 

 

 

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