Salvatore Ritrovato è uscito dal gruppo

Salvatore Ritrovato è uscito dal gruppo

ma senza disunirsi

 

Nel leggere “Come chi non torna” di Salvatore Ritrovato, raccolta poetica uscita per Raffaelli Editore nel 2008 e all’epoca terza pubblicazione dell’autore originario di San Giovanni Rotondo, ho avvertito un legame tra il poeta e la metafora incarnata dal Frusciante di Enrico Brizzi.

L’uscita dal gruppo, che nel romanzo è declinata dal protagonista sotto forma di ribellione adolescenziale, nell’opera di Ritrovato è l’abbandono da parte del poeta di quei luoghi che sono i suoi luoghi dell’anima. Un viaggio, il suo, che muove dalle atmosfere idealizzate e malinconiche della giovinezza per arrivare alle disillusioni di un’età più matura.

Di elegia in elegia, la formazione dell’io autoriale trova le sue sfumature e i suoi passaggi sotto il cielo di un Sud immaginifico, che la penna di Ritrovato racconta attraverso la delicata potenza di endecasillabi calibrati, talvolta sfocianti in versi così liberi da rasentare la prosa. I componimenti oscillano tra liriche ed ecloghe, proponendo spesso una compenetrazione di sottogeneri. La similitudine che dà il titolo alla silloge pone l’autore in uno stacco a cavallo tra le immobili anime del paesino natale – tutti ne abbiamo uno con cui raffrontarci – e coloro che invece hanno scelto di andarsene.

Tuttavia, nell’economia del mistero poetico, in quella terra di nessuno che l’autore abita e alla quale dona risalto, le persone andate del titolo – coloro che non torneranno – potrebbero anche essere quelle che hanno scelto di restare ancorate alla piccolezza della realtà paesana. Sono nati già partiti, perduti nelle sacche della provincia, lontano dalle martellanti vibrazioni della vita in seno al corso storico in divenire, sito nei centri di potere. Ma a una formazione che la letteratura attribuisce come esclusiva del viaggio, propria dunque di coloro che sanno sradicarsi, è possibile, attraverso-e-nella poesia di Ritrovato, individuare un’inversione di questo topos. Perlomeno è quanto capitato a me, leggendo i suoi versi, da abitante e membro di una piccola comunità.

Non a caso Massimo Raffaelli, nella prefazione dell’opera, parla di un esilio interno.

Il cambiamento investe le navi che salpano verso la tempesta, ma inesorabile colpisce anche i fari che vegliano sul loro cammino. Qui il poeta, unendo intimismo e paesaggismo, lega tra loro sponde lontane, congiungendole per mezzo di una tensione poetica che non concede sosta al vagare inquieto di un cuore legato a immagini primordiali, dalle quali sente l’impulso di staccarsi, ma che non può fare a meno di tenere vive.

 

 

I

 

                                                             a Enrico

 

Non amo le città, i quartieri futuri

illuminati dai lampioni.

Meglio una luce di traverso

appesa sullo scoglio,

meglio il trabucco che lievita sul mare

acceso dal tramonto

la bora che lo scuote.

 

Meglio la via che si arrampica

nella foresta tra carrubi e pini

ai faggi depressi dove sparisce il sole

invisibile scroscia tra le foglie

le radure di more nere come la terra

sotto le pietre.

 

 

In questo componimento, che apre la sezione intitolata “Verso casa”, ammirevole è la capacità di Ritrovato di porre l’armonia metrica tra i versi come cardine tra le immagini. Essa rivela vividamente l’equilibrio tra paesaggio reale e paesaggio interiore, nonché il tema tipicamente elegiaco del contrasto tra mondo agreste e mondo urbano. Alla vita convulsa che presenta quest’ultimo, il poeta preferisce quella evocata dalle atmosfere rarefatte della campagna e del mare.

 

Per non rimanere schiacciato dalla classicità del tema, Ritrovato propone una sobrietà linguistica che decanta la bellezza della natura senza imbarocchirla. I versi, anche i più prosaici, non si risolvono mai in uno strappo definitivo, in una rottura. Linguaggio e immagine, unendosi sotto il segno di elementi archetipici, si dissolvono in un unicum dal retrogusto crepuscolare. Si pensi, per esempio, alle poesie “La terra” o “L’erba” (I e II).  Ma non è soltanto paesaggio, la luce che Ritrovato traspone nei versi.

 

IX

 

Croci senza nomi.

Quanto marmo fra i cespugli

e bottiglie di plastica.

 

Tra i rami spogli andando

Cari mamma e papà dice una

non sono fatto per questa terra,

felice in cielo dove vi aspetto.

 

Usciamo alle campane

rannicchiati nel vento.

E intorno deserto.

 

  1. Giovanni Rotondo, agosto 2004

 

 

Nel testo sopra, l’ambiente circostante scivola rapidamente entro l’umana bocca di un epitaffio. Il mondo, il grande cosmo, si ritrova di colpo ridotto alle ultime parole di un suicida, mentre la vita si aggrappa alla traballante sicurezza infusa dai riti religiosi. Ma è solo un attimo. Nell’ultimo verso il paesaggio risale e azzera la timida reazione dell’uomo. Ne ribadisce la solitudine, ne sottolinea la caducità, lo isola da sé e dai suoi modi di far fronte alle ineluttabilità dell’esistenza. E Ritrovato è lì al centro, rannicchiato nel vento, circondato dalla desolazione, lontano da ogni meta, come nella poesia “E a metà strada, la paura” – “Che calma piatta e improvvisa a metà strada / un cielo basso che frastaglia l’orizzontale / vana paura di un bosco che il freddo incalza” – nella quale, tuttavia, nella terzina conclusiva, allo sgomento fa poi eco lo stupore: “e piega, sorprende in un affollato altrove / dimentico della vita, in un incolto presente / che l’eterno mura, quasi meravigliandoci”.

 

La paura dinnanzi all’ignoto e agli ancestrali e aggressivi vitalismi della natura è retta dall’uomo in virtù di una sensibilità atavica della quale la poesia di Ritrovato è voce. Soltanto attraverso di essa l’umanità riesce ad accettare il peso iniquo delle forze in campo, l’universo indifferente che travolge il singolo. Nel corso della raccolta, suddivisa nelle sezioni “Verso casa”, “Egloghe” e “Altre stagioni, soglie”, l’io autoriale e autobiografico della poesia “A vent’anni” omaggia i perni più intimi, come la figura della nonna (“Al pozzo asciutto”), senza smettere di interrogarsi sul rapporto tra individuo e cosmo.

 

 

La dimensione temporale della propria esistenza è immersa dal poeta entro i confini sfumati di quei terreni e latifondi che ne compongono l’ambiente sentimentale. Il tempo diviene luogo, varco, percorso dei vivi e dei morti, paese eterno e sperduto pur essendo ovunque. La riflessione filosofica lascia presto spazio all’introspezione, all’evocazione di un sottotesto più personale, legato ai ricordi d’infanzia, alle figure familiari, ma poi ritorna nel segno di una sovrapposizione tra universale e particolare – come nelle poesie di Antonella Anedda – originando una suggestiva e aletheica sottodimensione onirica.

 

Un sogno ricorrente

 

Per meglio amministrare le ultime risorse

divido la memoria in are ed ettari

e gli anni in latifondi,

ad ogni latifondo il suo colore.

Nel rosso minerario mi alzo in piedi

nel giallo granoro incontro mio padre

nell’indaco cerco la mamma

e il pensiero va all’infanzia.

Ma nel cinabro è un canto

e mi pare di tenere un volto

di poterlo accarezzare.

Quanti vassalli ancora, comites

protospatarii hanno stendardi da sventolare?

Grigi, pigri li vedo allontanarsi

forse distratti dalle parole miti

di un altro dio:

nessuno crederà che io sia morto.

 

 

Farsi giorno

 

“Sic unum quicquid paulatim protrahit aetas/ in medium ratioque in luminis eruit oras”. (Lucrezio, De rerum natura, V, 1454-1455)

 

L’alba, pensavo tra me, ora è un’ampia mucosa

dell’universo, scintilla a tratti sul parabrezza,

per poco, e i balconi quado abbraccia

il fuligginoso deserto di questo sogno.

Sogno allora di sdraiarmi all’erba e da lontano

nel cielo ardesia cercare una via di fuga

al tempo che si spegne su una riva rapinosa.

Alcuni uomini laggiù nelle strade nere

con i rombi, in un’aria bassa, hanno già in mano

la loro vita, aprono e qualcosa celano

perdutamente, che non sanno neppure, un timore

piovuto sulle ustioni del giorno prima.

La città si rallegra di questa sordina,

libera una brezza generosa alla rapida

confusione delle prime ore della mattina.

Ma altre ombre negli avidi lampi

del nuovo giorno che prende fuoco

lentamente si accendono, io non vedo.

Bruceranno nell’ingorgo quel senso di esodo

della morte o appressamento insensato

che mute le attraversa nel quotidiano diluvio

di storie e l’oblio spinge all’amore.

Forse restano così, legate in un tenace

bagliore di un pensiero improvviso

al sole che colpisce con un taglio obliquo

e duro rasoterra e scalda a lungo la materia

e ogni angolo di questa civiltà, ogni pietra

o foglia che sanguina sotto le scarpe,

ogni ombra che adesso muore.

 

 

Ed è al termine di un percorso che in realtà non può avere fine, quello atto a ricongiungere i pezzi del proprio sé e della propria storia – il tragitto che ricuce i lembi d’anima dilaniati dalla ferita –, che Ritrovato opera il superamento dei confini contemplati. Gli stessi che ne hanno costellato la vita divisa tra la Puglia e le Marche, ove in quel di Urbino è docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi “Carlo Bo”; i medesimi limes che separano il passato dal presente, i presenti dagli assenti, le comunioni dalle lontananze.

 

Lo fa attraverso la coppia di testi che chiudono la silloge, prima della dedica finale.

 

Il primo è in vernacolo e s’intitola “Stralôquie” (Strologo, in italiano), del quale è giusto segnalare la chiusa: “Ièva tutte come penzava, / e mo è tutte luntane” (“Era tutto come pensava, / e ora è tutto lontano”).

 

Il secondo è “Fra amici”:

 

La sera, ma sul tardi, un desiderio

di sentirsi uguale agli altri, di uscire

mentre pioveva a farsi una partita

a bowling e un bicchiere mi prendeva.

 

Stagione di ultimi incendi, io serio

sentivo chiacchiere e beghe fra noi

e domande eterne bruciare in poco

tempo e spegnersi; poi tirava vento.

 

Ma nel paese che ci lascia fuggire

uno a uno lentamente, era un gesto

di sgomento e chiarezza che occorreva

 

tornando dall’esilio, e fede dentro.

Nottambuli a scappare e a dire via

vola di là dal buio, oltre il cemento.

 

 

Salvatore Ritrovato è uscito dal gruppo per non consentire al suo io più puro di disunirsi, come direbbe il personaggio di Antonio Capuano nel film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino. Non l’io poetico, ma quello ancora più umano e fragile: il ragazzino di San Giovanni Rotondo, una persona che poteva finire col rientrare nella casistica di coloro che mai sarebbero tornati al paesello, che mai sarebbero scesi a patti con il proprio vissuto e il proprio dolore, ma che invece, leggendo i versi di “Come chi non torna”, sembra esserci riuscito.

 

Ovviamente non posso saperlo con certezza, ma mi auguro che sia così.

 

Sicuramente tale processo deve essergli costato molta sofferenza, ma forse è proprio lì, nella landa interiore più devastata, che la sua vena poetica ha trovato terreno per mettere radici e donare alla propria voce la possibilità di fiorire.

 

E di tornare sempre.

 

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