In un rapporto della Prefettura di Bologna del 1919, si legge una nota sulla pericolosità sociale di una donna, identificata come ‘pericolosa sovversiva’. Per la precisione, un tipo violento per temperamento e volubile che riscuote nell’opinione pubblica cattiva fama, avendo sempre mantenuta una condotta morale riprovevole. Una nota che contrasta nettamente con la foto che la ritrae sorridente, i capelli scuri e gli occhi vivi.
Il soggetto pericoloso è una donna sconosciuta ai più, anche a distanza di anni: il suo nome è Virgilia D’Andrea. In alcuni documenti figura come Virginia, e con molta probabilità crediamo possibile un errore di trascrizione. A ogni modo, il personaggio in questione rientra a buon diritto tra quelli che definiremmo ‘da romanzo’.
Virgilia D’Andrea nasce a Sulmona (AQ) nel 1888 e rimane subito orfana. La sua educazione ricade nelle mani di alcune parenti religiose, che allora vivevano in un convento. Possiamo dedurre che il suo carattere inquieto e le vicende familiari abbiano avuto un peso non indifferente sulla emotività della giovane. È probabile che in seguito al regicidio di Umberto I nel 1900 sentì pronunciare la parola anarchico per la prima volta.
Dopo aver conseguito il diploma da maestra, Virgilia abbandona il convento e inizia la sua carriera da insegnante. L’aver avuto a che fare con una realtà sociale desolante, per quello che era l’Italia di inizio Novecento, la convince ad abbracciare la causa anarchica. La lettura di Leopardi, Carducci e di Ada Negri le fa conoscere il meraviglioso mondo della poesia. Dell’ultima, Virgilia dirà: io uscii da quella lettura rinovellata e rinvigorita, come se tutto l’essere mio si fosse tuffato in un bagno d’azzurro purificatore.
Lo scatenarsi della Grande Guerra la avvicina al movimento sindacalista e a quello anarchico, tanto che nel 1917 incontra l’uomo della sua vita: l’attivista emiliano Armando Borghi, da cui non si separerà più. Anche se i suoi scritti sono indirizzati alla tematica sociale, l’anarchico Malatesta scriverà nella prefazione a Tormento, una delle opere della poetessa peligna: «Ella si serve della letteratura come d’un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico o ad una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che dalla prigione lo sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta.»
Infatti, nei suoi versi risuona grande la passione per la poesia come arma di comunicazione: «… O sole, o luce o scintillante aurora,/Impero ardito di possente frana,/Al puro raggio l’anima s’indora/E sarà vita di grandezza umana». Il che le valse l’appellativo di poetessa dell’anarchia.
Si sposta anche a Parigi e negli Stati Uniti, dove continua la sua opera di proselitismo e di difesa dei diritti degli ultimi. Non smette mai di scrivere; tanto che nel periodo parigino pubblica L’ora di Maramaldo, una analisi spietata del regime fascista.
Una delle opere più note è Torce nella notte, di cui riportiamo un passaggio:
La vita! Che triste, che miserevole cosa è mai la vita! Piena di rinunce, piena di livori, carica di passioni… Entro la quale voi, uomini, vi aggirate barcollando, con l’anima ingombra di tenebre, entro la quale voi, uomini, vi trascinate a stento sotto un carico di pesanti umiliazioni.
Nel 1932 Virgilia scopre di avere un tumore all’intestino: ciò non le impedisce di proseguire con la sua attività di propaganda e di continuare a scrivere. Si sottopone a un intervento chirurgico, che però non risolve la malattia e anzi vede peggiorare il suo già precario stato di salute. Si spegnerà nella sua abitazione di New York, nel 1933, a soli 45 anni, dopo aver dedicato una vita in difesa dei diritti umani e aver scoperto sin da giovane la bellezza della Poesia.