LA MORTE DEL PICCOLO LEONE È UN PROBLEMA CULTURALE? UNA RIFLESSIONE

LA MORTE DEL PICCOLO LEONE È UN PROBLEMA CULTURALE? UNA RIFLESSIONE

 

La fine del piccolo Leone ha colpito l’Italia intera. Un gattino scuoiato vivo per gioco, o per esibizionismo, o per pura cattiveria, o perché, molto banalmente, non si sa distinguere il bene dal male. Inutile dire quanto lo sguardo innocente del micino che sembrava implorare i suoi soccorritori di salvarlo abbia commosso tutti noi, lasciandoci una sensazione di rabbiosa impotenza. All’atrocità non si sa mai come rispondere e, soprattutto, ad essa non si riesce a trovare una motivazione. L’innocenza violata fa male: è un pugno nello stomaco. Vorrei, però, cercare di riflettere su quanto accaduto per capire cosa stia accadendo in questo mondo che pare accanirsi spietatamente su esseri indifesi.

Cosa può spingere un uomo – inteso nel senso etimologico di “appartenente alla specie umana” – a commettere atti di violenza gratuita? Perché non interviene la coscienza a suggerire che un’azione è malvagia e pertanto non va compiuta? Davvero si è perso a tal punto il senso del bene da non capire che scuoiare vivo un essere vivente lasciandolo agonizzante è male?

Sono domande a cui non se riuscirò mai a trovare una risposta. Temo che siamo in balia di un vuoto di senso e di valori che rende gli individui capaci di qualsivoglia mostruosità facendoli sentire giustificati e, cosa più grave,  innocenti.

Perché urlare invece di parlare? Perché gli atti di bullismo? Perché la violenza sulle donne? Perché la guerra? Perché le liti tra vicini che sfociano nel sangue? Perché scuoiare vivo un gattino o uccidere un’orsa di spalle? Perché? Forse perché dovremmo ri-orientarci, tornare alle nostre origini umane, conoscere noi stessi e ciò che siamo:  «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» fa dire il buon Dante ad Ulisse. Ecco: forse dovremmo reimparare la virtù, quella dell’humanitas, quella che ci rende realmente uomini, esseri umani e sociali, quella che ci fa unire in social catena e che è fatta di amore e compassione; dovremmo tornare alla “canoscenza”, alla cultura, quella vera, quella che agisce nell’interiorità e che ha la intrinseca capacità di trasformarci e di “curarci” nel profondo. Dovremmo tornare alla bellezza che, a mio avviso, rende incapaci di fare il male, perché il male, in una parola,  è brutto.

Purtroppo, si è come narcotizzati e lo vediamo tutti i giorni: il male fa notizia ed esercita una sorta di malia che spinge a ricercarlo e, nei casi più estremi, a rendersene protagonisti. Per cosa? A volte solo per un momento di notorietà, per essere “in tendenza” sui social, per diventare “virali”. Ma i virus, si sa, possono essere mortali.

Si invocano leggi e punizioni severe, ma esse sembrano sortire lo stesso effetto delle gride contro i bravi di manzoniana memoria: d’altra parte, a cosa valgono le leggi scritte se non si ascoltano quelle non scritte?

«Ama e fa’ ciò che vuoi» diceva Agostino d’Ippona. Forse, semplicemente, dovremmo ripartire da qui.

 

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