Recensione alla raccolta di liriche Misinabì di Giulio Maffii

Recensione alla raccolta di liriche Misinabì di Giulio Maffii

A cura di Daniela Sannipoli

 

Arrivata alla terza lirica di Misinabì  di Giulio Maffii, ho deciso di continuare la lettura al bar. Qui ci sono la vita e la morte nel loro movimento giusto; naturale. In questo luogo si assapora il “vers de dreyt nient”; il verso di puro niente che, magicamente, restituisce il retrogusto amaro di esistenze fittizie e di morti vere. Qui i versi di Giulio prendono forma: tra vetrine di scintillanti crostate alla frutta e gente anonima che le fotografa, le mangia e va via col proprio niente edulcorato; qualcuno le compra per portarle a casa. Le briciole sono sempre le stesse; sempre gli stessi avanzi. Cambiano le tasche con il cambiare delle stagioni, ma portiamo con noi i resti dell’esistenza: “scendemmo poi / con le briciole piene di tasche”; “I morti stanno rinchiusi di giorno / la notte mangiano frutta”.

Forse i sapori veri si gustano meglio nell’oscurità, e questo viavai anonimo mattutino vede fantasmi trascinare catene pesanti di quotidianità. C’è una grammatica arcana a stabilire il dialogo, la discesa. “Perché il verbo non ha desinenze / quando è fuori dalla grammatica vivente / e poi scendemmo ancora mentre”.

Non è per tutti; la impari a scuola se l’hai ereditata, e continui a offrirla al mondo nel destino di essere poeta, con la responsabilità, il peso: “il mondo sulle spalle di una penna”. C’è sempre un’Antigone che muore prima della morte, “excrucior”, crocifissa nell’Odi et amo del conflitto quotidiano vita/morte; esistenza/apparenza. Si scende, si continua a scendere per abbandonare consistenze inutili e ritrovare/ritrovarsi in profondità temute, dove l’annullamento dei sensi dona il senso vero. Fioriscono more nel gelo; la poesia e l’uomo mostrano la vetta nell’abisso.

 

 

 

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