La notte senza fine di Tiziano Sclavi, riflessioni sulle sue “Ballate della notte scura”

La notte senza fine di Tiziano Sclavi

Riflessioni sulle sue “Ballate della notte scura”

 

«Il mio sogno è sempre stato quello di fondere i generi. Da ragazzo volevo fare lo scrittore, il fumettaro, il cantautore e il regista: me ne sono andate bene due sue quattro» è quanto afferma Tiziano Sclavi nel paratesto che a inizio libro funge da premessa.

 

Tuttavia, a fronte di questa pubblicazione avvenuta nel 2013 per i tipi della Squilibri, alle professioni che gli sono andate bene vi sarebbe da aggiungere anche quella di poeta, mestiere che Sclavi da giovane forse non sognava di fare, ma che ha finito per esercitare con il garbo e la sapienza propria delle grandi menti. Non solo attraverso i testi pubblicati in questa plaquette illustrata da Max Casalini e musicati dal duo Secondamarea, ma passando anche e soprattutto per quelle vie traverse che i poeti più autentici, i più puri, riescono a coprire percorrendo altri generi.

 

Il creatore del celebre indagatore dell’incubo Dylan Dog, protagonista eponimo del fumetto che dal 1986 viene pubblicato dalla Sergio Bonelli Editore, ha difatti segnato l’immaginario collettivo italiano e mondiale proponendo un campionario di storie e personaggi dietro la cui patina si celano una poetica e una filosofia in grado di trascendere il proprio medium – il fumetto, un genere ingiustamente bistratto e spesso considerato di serie b – e sostanziare col proprio peso la moderna cultura popolare, al pari di un grande romanzo o di una serie televisiva di successo.

 

La saga di Dylan Dog ha condotto Tiziano Sclavi a vette di grandezza delle quali lui, da uomo pragmatico e ben ancorato alla realtà quale emerge nelle poche interviste rilasciate, non sa che farsene. Il successo non scaccia i mostri, i demoni che infestano le nostre vite e che non lasciano in pace neanche chi, con quei mostri, ha provato a scenderci a patti attraverso l’esercizio della fantasia.

 

Il suo male di vivere, Sclavi lo ha trasposto nelle nevrosi del suo Dylan Dog. La sua sagacia, il suo brillante humour nero, lo ha affidato a Groucho. Ai suoi timori, che albergano nell’insensatezza dell’universo e nella violenza che anima la società, ha dato il volto di assassini, creature extraterrestri, infernali, demoniache. Dylan Dog indaga e risolve misteri senza però mai debellare definitivamente quel male che di volta in volta s’incarna sotto nuove e spaventose sembianze. La metafora semplice, ma non per questo meno efficace, di una depressione che è destinata a tornare sempre, anche qualora la si combatta e la si sconfigga. Tutto è momentaneo, tutto è destinato a perire, tranne la lotta tra bene e male, tra vita e morte.

 

Le “Ballate della notte scura” sono un’altra testimonianza letteraria del sentiero individuato e percorso da Sclavi: una via che nessuno, individuo o umanità che sia, può evitare di battere. L’alternativa è la morte. L’alternativa all’alternativa, invece, è la scrittura.

Qui essa è chiamata a farsi lanterna, stella, faro in mezzo alla tempesta, ma senza il supporto dell’immagine fumettistica. Di riflesso alla solitudine tipica dello scrittore, qui le parole sono sole e lasciate a sé stesse. Non vi sono personaggi o ambientazioni a fare da filtro. Ci sono storie, ovviamente, e ci sono, come accennato, illustrazioni e musiche a fare da corredo, ma l’essenza dell’orrore è ripiegata e contenuta nei versi dei testi che Sclavi, in quello che lui derubricherebbe a esperimento, ha redatto rimanendo fedele a sé stesso e al suo Dylan Dog. Non sono canzoni dell’orrore o poesie macabre, ma ci parlano ugualmente di quelle paure e di quelle malinconie che abitano tutti noi.

 

 

Solo che qui il mistero non può essere svelato. Non può esservi una risoluzione, un momento dove le carte vengono scoperte e tutto appare chiaro. La notte scura, la vita nelle sue incongruenze e negli orrori prodotti da esse, non ha mai fine. Tanto vale, a questo punto, cantare e ballare nella sardonica consapevolezza di essere passanti, comparse, marionette di un burattinaio indifferente. Non che questo, comunque, riesca a svilire l’importanza dell’umano sentire e della sofferenza. Pavese sosteneva, non a torto, che soffrire sia inutile. I calvinisti vedevano nella sofferenza un mezzo per nobilitare la propria persona. Io, leggendo le poesie di Sclavi, v’intravedo l’unicità del genere umano e, al contempo, la capacità di rendere speciale e significativo qualcosa che in mancanza di verità certe è una proto-verità: l’arte, per quanto futile, può lenire la futilità del tutto.

 

La prima ballata s’intitola “Chi ha paura?” ed è un piccolo inno alla predestinazione. Non ha importanza chi tu creda di essere, sei destinato a diventare ciò che sei già, anche se ancora non lo sai. Vittima o carnefice, qualcuno o qualcosa lo ha già deciso. Non c’è di che.

 

In seconda base abbiamo “Il grande vuoto”, lirica che invoca la fine e la presenta come liberazione dagli affanni e dagli abissi di una società destinata a perdere sé stessa.

 

Seguono “Sfera”, un testo piuttosto descrittivo che utilizza la tecnica dell’accumulo per suscitare nel lettore un sentimento d’indefinibile inquietudine, e “Dopo”, sei quartine libere dove l’immaterialità si pone come via d’uscita rispetto alla crudeltà del disfacimento corporale, uno dei temi ricorrenti del libro.

 

“Piove” descrive con stile prosastico la proverbiale quiete prima della tempesta, qui incarnata in una schiera di mille carrarmati pronti a fare fuoco su una quotidianità ridotta a involucro. Il testo è imbevuto di forti tinte distopiche, sullo stile di “1984” di George Orwell e con echi di “Brazil”, film di Terry Gilliam.

 

La quasi eponima “Filastrocca della notte scura” è una poesia in rima baciata dove l’uomo è invitato a fuggire dall’oscurità incombente, anche se essa lo raggiungerà comunque. Come già annunciato nella poesia d’apertura, non ha importanza chi sia la vittima e chi il carnefice. L’oscurità non fa distinzioni nell’abbracciare chi incontra.

 

“Nel buio” presenta due stanze speculari e un destino comune. In esso si consuma il sopraccennato disfacimento della carne e la rimodulazione dell’anima sotto altra forma. Il poeta dialoga con la propria alterità e fa una promessa che è speranza. Segue poi quello che a mio avviso è il miglior testo della raccolta.

 

 

Gli anni del mare e della rabbia

 

Erano gli anni del mare e della sabbia,

erano anni che doveva scambiare la rabbia,

e l’Italia era tutta in fila per Rimini (Forlì),

me compreso, e il mio posto non era lì.

 

Erano gli anni che cominciavo a capire

la poca differenza tra vivere e morire,

la grande differenza tra me e tutti gli altri:

erano anni oscuri, e sono stati tanti.

 

Erano gli anni che in teoria sarei dovuto

diventare uomo, e invece non son cresciuto,

io bambino sbagliato, futuro gigante di vetro:

non sono andato avanti, non so tornare indietro.

 

Erano gli anni del mare che mi hanno rubato,

che mi hanno riso dietro, che mi hanno umiliato.

Erano anni già passati mentre stavano passando

e io non li vivevo, li stavo solo guardando.

 

Erano anni che sott’acqua si poteva far pipì,

anni banali e tremendi, anni insomma così,

da dimenticare se potessi, ma non ce la faccio,

ce l’ho dentro, il mare, un mare di ghiaccio.

 

Ci sono andato poi d’inverno, ed era meglio,

sempre un brutto sogno, ma col diritto al risveglio,

e nessuno che mi chiedesse perché non fai il bagno,

l’immenso mare era allora un piccolo stagno.

 

E l’Italia è ancora in fila per Rimini (Forlì),

stavolta senza di me, stavolta non sono lì.

A casa penso agli anni del mare e della sabbia,

e questi sono gli anni che è scoppiata la rabbia.

 

 

Una poesia dal timbro confessionale dove la rima baciata dei versi si nasconde nell’incavo scavato dalla fotografia sfocata della rimembranza e il passato è luogo da odiare perché fulcro di quell’incompletezza poi divenuta ossessione. Qui la fragilità è debolezza, la paralisi esistenziale una condizione immodificabile e la rabbia, una rabbia insorta fuori tempo, è la beffa che corona il senso d’impotenza che da sempre attanaglia il cuore del cantore. Chiunque abiti un corpo o una vita nei quali non si riconosce, qui avrà modo di riconoscersi. E di sentirsi meno solo.

 

Dopo tale parentesi intimistica, con “Fiaba” si fa ritorno tra gli archetipi del racconto fantastico, qui decostruiti di volta in volta dalla forza motrice della voce narrante. Il male non è dato dai villain come Barbablù, ma dalla realtà che li confina nella fiaba.

 

Mentre “La ballata della città di notte” è manifesto sommativo della poetica di Sclavi, “Canto” dà voce al pensiero catastrofico ed esalta il potere lenitivo della scrittura come atto di sopravvivenza e ribellione a un corpo in totale decadimento. “La barchetta” è invece un testo con rimandi a “IT” di Stephen King e suggestioni ascrivibili ai panorami marittimi tratteggiati da Sandro Penna. “Per dormire”, subito dopo, gioca con la dimensione meta-testuale dell’autoconsapevolezza producendo riflessioni sull’inutilità della scrittura e della vita quando l’unico scopo rimasto converge nell’attesa della fine.

 

“Il lungo addio” miscela le tematiche dell’amore inconsumato e della vita come simulacro nichilista, una scatola il cui vuoto è dato dalle attese inappagate. “Dieci omini” è una filastrocca cuscinetto che precede la didascalica e chilometrica “Danza di un anno”, poesia che passa in rassegna i mesi del calendario per decantarne virtù e lati oscuri e ribadire la ciclicità di quell’insensatezza cosmica che è l’esistenza.

 

Si chiude così, tra mostri e disillusioni irrisolte, la plaquette di Tiziano Sclavi, fumettista geniale, autore di romanzi che lui stesso spera siano finiti al macero (tanto è severo il suo spirito d’autocritica), uomo schivo, scettico, alieno alle pose e alle maschere, sensibile come pochi, pellegrino in cammino – come noi – verso la fine della propria notte scura.

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