Edith Bruck narratrice degli orrori tra memoria, testimonianza e speranza
C’è una scrittura che salva la vita e una scrittura che la perde. Entrambe ad un certo punto si fanno anatomia, fisiologia e patologia del corpo, quello fatto di carne ossa e sangue . E’ quello che per esempio accade nel rapporto tra esperienza personale e scrittura di Edith Bruck, Primo Levi ed Aldo Moro .
Non sarà un caso che i destini divergenti di due uomini e una donna quasi contemporanei si coagulino intorno a un luogo : la prigione e non sarà un caso che due di loro troveranno nella morte la liberazione e la terza la libertà in una vita fatta di memoria e di testimonianza .Cosa accade dentro di noi quando gli ideali nei quali abbiamo creduto e per i quali abbiamo vissuto vengono offesi, spezzati, distrutti lasciandoci senza punti di riferimento o luoghi che ci appartengono? Come possiamo superare il trauma di essere riusciti a sopravvivere per esempio nel caso di Bruck e Levi o di essere sottoposti nella prigione del popolo ad un interrogatorio di ferocia psicologica come nel caso di Aldo Moro . Per tutti e tre questi protagonisti si tratta di vicende personali che però riguardano anche la collettività . Tutti e tre trovano il modo di raccontare attraverso la scrittura quella esperienza vita , Bruck e Levi nei loro romanzi e Moro nelle sue lettere istituendo un linguaggio segreto e sicuro .
Michel Foucault scriveva : “In quella Svezia in cui dovevo parlare un linguaggio che mi era straniero, ho compreso che potevo abitare il mio linguaggio – con la sua fisionomia d’improvviso peculiare – come il luogo più segreto e più sicuro della mia residenza in quel luogo senza luogo che rappresenta il paese straniero nel quale ci si trova. […] Credo che sia stato questo a farmi venire voglia di scrivere. Dal momento che la possibilità di parlare mi era negata, ho scoperto il piacere di scrivere.(1)
Michel Foucault ha concepito e praticato l’articolazione tra ciò che ha chiamato soggettivazione” (il processo di costituzione della soggettività) e la scrittura, e lo ha spiegato attraverso almeno tre modelli. Per quello che riguarda la nostra riflessione, quello della scrittura come esperienza di de-soggettivazione ne prendiamo uno che è forse quello più vicino a quello che vogliamo dire , ovvero il modello del rapporto tra scrittura e soggettivazione che ci viene scpiegato da Daniele Lorenzini in un articolo di le parole e le cose.it .
Scrive Daniele Lorenzini in “ Michel Faucault scrittura di sé e sperimentazione” : “Il “modello del rapporto tra scrittura e soggettivazione, in Foucault, può quindi essere descritto utilizzando il concetto chiave di esperienza (2). “Esperienza”, qui, possiede un significato ben preciso: Foucault indica, con questo termine, una modalità di rapporto con se stessi attraverso la quale ci si trasforma, si modifica ciò che si è e ciò che si pensa, scavando in qualche modo un fossato tra ciò che si era e si pensava e ciò che si è e si pensa adesso. Un po’ più avanti, nella stessa intervista, Foucault afferma di aver trovato tale concetto di esperienza in Nietzsche, Blanchot e Bataille: un’«esperienza limite, che strappa il soggetto da se stesso» e fa in modo che «non sia più lui, o che sia condotto al suo annientamento o alla sua dissoluzione». Concepire la scrittura come un’esperienza significa dunque pensarla come una vera e propria «impresa di de-soggettivazione»( 3). In un’intervista pubblicata nel maggio del 1984, Foucault definisce l’«etica di un intellettuale» nel modo seguente: «rendersi capaci in permanenza di svincolarsi [se déprendre] da se stessi»(4) (5)
Dunque l’esperienza per Foucault permette una modalità di rapporto con se stessi attraverso la quale ci si trasforma, si modifica ciò che si è e ciò che si pensa, scavando in qualche modo un fossato tra ciò che si era e si pensava e ciò che si è e si pensa adesso.
E’ questo il rapporto con se stessa che percorre come un filo rosso tutta la scrittura di Edith Bruck di cui mi occupo in questo scritto .
Una premessa necessaria quella della scrittura che ho mutuata da Focault perchè l’esperienza di questa donna internata nei lager nazisti dai quali è sopravvissuta tocca proprio la soggettività e la corporeità.
Torna in libreria per l’editore La Nave di Teseo “Signora Auschwitz. Il dominio della parola “: lettera aperta ai giovani incontrati nelle scuole nel corso degli anni, durante la sua lunga esperienza di narratrice degli orrori .
Durante gli incontri con gli studenti per raccontare la sua esperienza personale della Shoah una studentessa la chiama “ Signora Auschwitz” e lei sceglie questo appellativo, lo rivendica, lo sceglie come titolo di un libro che è una lettera aperta ai giovani incontrati nelle scuole nel corso degli anni , durante la sua lunga esperienza di “ narratrice degli orrori”. Il testo, uscito la prima volta nel 2014 da Marsilio1999, è ora ripubblicato da La nave di Teseo.
Dice Edith Bruck nel risvolto di questo suo libro pubblicato per la prima volta nel 1999: “ “Un’impacciata studentessa rivolgendomi una domanda mi chiamò “Signora Auschwitz”. Luogo che abitava il mio corpo e che mi sentivo anche addosso, come una camicia di forza sempre più stretta, che negli ultimi due anni mi stava letteralmente soffocando, senza che fossi capace di liberarmene.” E sul risvolto continua così l’illustrazione del libro : “ Ha inizio così il viaggio negli oscuri tormenti dell’anima di una “sopravvissuta”, destinata a dibattersi tra i lacci di una memoria cui non si scappa e il desiderio di liberarsi del peso insopportabile di un passato che la inchioda nel ruolo di “testimone”. Obbligata a rendere conto di un orrore che non si lascia raccontare e rinnova il sentimento di una perdita irreparabile, la “sopravvissuta” non può andare “oltre” e ritrovare una serena normalità, è costretta ogni volta a ricominciare da capo. Eppure al destino non si sfugge e “il dono della parola” è anche il suo eterno tormento; il dovere di non dimenticare si capovolge nella condanna a ricordare e soffrire e il desiderio di fuga riaccende un insopprimibile senso di colpa, come se il silenzio sottintendesse un vergognoso tradimento. Un racconto sul dolore della memoria, la distanza che allontana dall’indifferenza degli altri, la disperazione di fronte all’incredulità, l’eroismo necessario per raccontare l’orrore che si è vissuto. “Chi ha Auschwitz come coinquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai.”
“La memoria è vita per me. La memoria dovrebbe essere vita per tutti. Non possiamo cancellare il passato perché il passato è il nostro presente e il nostro presente sarà il nostro futuro. Il tempo è uno. Credo che la memoria riguardi tutta l’umanità, non soltanto coloro che sono stati deportati. Purtroppo dobbiamo parlare sempre noi perché gli altri vorrebbero appiattire, cancellare, allontanare, respingere, mistificare, rimuovere”. (6)
«Perché sarei sopravvissuta / se non per rappresentare / le colpe, soprattutto / alle persone vicine? / Di tante colpe che avranno / una, la più grande, sarà / il pentimento / di avere fatto del male, / a me che ho sopportato tanto. / Con me che sono diversa / dalle altre e porto in me / sei milioni di morti / che parlano la mia lingua / che chiedono all’uomo di ricordare / all’uomo che ha così poca memoria. / Perché sarei sopravvissuta / se non per testimoniare / con la mia vita / con ogni mio gesto / con ogni mia parola / con ogni mio sguardo. / E quando avrà termine / questa missione? / Sono stanca della mia / presenza accusatrice, / il passato è un’arma / a doppio taglio / e mi sto dissanguando. / Quando verrà la mia ora / lascerò in eredità / forse un’eco all’uomo / che dimentica e continua e ricomincia…».
E’ Edith Bruck ,l’ebrea ungherese deportata nei campi di concentramento nazisti a 12 anni nei quali ha visto morire tutti i componenti della sua famiglia , a cui è sopravvissuta insieme alla sorella, che parla e scrive questi versi.
Trasferitasi in Italia dopo un soggiorno in Israele inizia la sua attività di testimone di quelle vicende con le sue numerosissime opere tutte scritte a mano su taccuini. Addirittura all’arrivo a Roma nella stanza dove abitava non aveva nemmeno un tavolo e scriveva sul baule che conteneva i suoi effetti personali. In Italia incontra il poeta Nelo Risi ,fratello del regista Dino Risi, legandosi a lui per una vita intera. Malgrado le difficoltà specialmente quelle degli ultimi anni del suo consorte gli è rimasta accanto sublimando quella esperienza ma soprattutto quella della malattia in pagine di scrittura emozionanti e avvincenti in grado di offrire lo spessore ma anche il retroterra valoriale e sentimentale di un legame che non è venuto meno nemmeno dopo la morte .
“La rondine sul termosifone” edito da La nave di Teseo è il racconto della malattia di Risi affetto da una progressiva degenerazione cerebrale . Pagine dunque con un titolo strano : a dir poco bizzarro; come fa infatti una rondine a posarsi su un termosifone? Si una rondine può posarsi su un termosifone. In un’altra dimensione del pensiero e forse della vita umana . Una rondine sul termosifone che nella visione alterata di un malato di Alzheimer diventa qualcosa forse di poetico ma più spesso di terribile .Il libro parla di che cosa ha rappresentato quella esperienza agli occhi di una donna che decise, nonostante il parere dei medici, di affrontarla, anzi di immergersi fino alla disperazione più pura in quell’anfratto di follia?
Edith Bruck nei suoi versi ricorda costantemente quello che rappresenta il solo e unico motivo per cui valga la pena di continuare a vivere dopo essere passati nel tormento di un’esperienza indicibile: la memoria e la testimonianza di ciò che è stato per lei e per milioni di uomini donne bambini vecchi che hanno affrontato l’esperienza dei campi di lavoro e di sterminio nazifascisti ,alla quel la gran parte di loro non è sopravvissuta. .
Edith Bruck, è tra le pochissime e pochissimi sopravvissuti all’inferno della Shoah ancora viventi come Liliana Segre . Tra quelli scomparsi ricordo Primo Levi, Simone Veil, Elio Toaff, Piero Terracina, Franco Schoenheit.
Le opere di Bruck ci inducono a dire come afferma Alberto Bertoni : «È un fatto che anche chi non è stato coinvolto di persona nell’Olocausto, per ragioni di età, non può sentirsene estraneo, in Germania come in Italia, nella Spagna franchista o nella Francia di Vichy, sia che vi abbia agito da protagonista qualche membro del suo albero genealogico, sia che altri suoi congiunti o antenati abbiano constatato senza reagire la scomparsa improvvisa di persone a loro vicine, coinvolte nel massacro. Ciò non significa che tutti i tedeschi nati dopo Auschwitz debbano ritenersene direttamente colpevoli: ma nemmeno una loro eventuale indifferenza o ignoranza sono in alcun modo consentite» (7)
Ma che cosa è stata la Shoah .Gadi Luzzatto Voghera in un articolo del 2017: «è stato l’unico caso in cui la civiltà europea ha tentato di eliminare in modo largamente volontario una parte fondamentale del suo patrimonio umano e culturale; per la prima e auspicabilmente unica volta nella storia l’intera macchina militare e burocratica di uno stato ha assunto come fine programmatico lo sterminio di un popolo; è stato l’unico caso in cui la furia persecutoria propria di un uomo (Hitler) si è trasformata in azione che venne messa in pratica da chi riconosceva in questo uomo il proprio leader; un’intera generazione (fatte salve rare eccezioni) di un popolo – quello tedesco – partecipò in vari gradi alla macchina dello sterminio. Ma non si tratta di una questione di numeri, non è lì che risiede la sua unicità. Sei milioni sono un numero spaventoso, eppure ci sono state nella storia anche stragi più sanguinose. Ogni morte violenta è di per sé “unica” e impone una riflessione etica che conduca all’elaborazione di una necessaria memoria. L’unicità della Shoah, oltre che negli elementi elencati schematicamente, risiede nel fatto che si trattò di un meccanismo sorto all’interno di un mondo occidentale liberale, industrializzato, tecnologicamente avanzato che nella sua presunzione di superiorità morale verso altre civiltà è stato capace di produrre sì cose ottime (dagli antibiotici al motore a scoppio, dalla democrazia al cinema a quel che si vuole aggiungere), ma anche dinamiche terribili, come appunto la Shoah. È per questo che si può parlare di “macchina” dello sterminio. “Nel 2000 – disse Elie Wiesel – chiesi all’Assemblea dell’ONU se il mondo avesse imparato la lezione di Auschwitz. La risposta, ieri e oggi, è no. Come spiegare altrimenti Cambogia, Bosnia, Ruanda, Kosovo, Sudan e Siria?”» .(8)
Di origine ebrea, classe 1931, nata a Tiszabercel, in Ungheria, Edith Bruck ha vissuto sulla sua pelle l’orrore della discriminazione razziale. Aveva solo 13 anni quando, nel 1944, è stata deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Dopo essere stata mandata successivamente ad Kaufering, Landsberg, Dachau eBergen-Bielsen, nell’aprile del 1945 è stata liberata. Esordì come scrittrice nel 1959, con l’opera Chi ti ama è così. Fu il suo debutto. Da allora scrive in italiano, nonostante non sia la sua lingua madre. Ha scritto molti libri di successo. Libri nei quali racconta la sua storia e non solo. La sua penna è molto riconoscibile.
Lunghissima la sua bibliografia tutta scritta in italiano perchè come lei stessa dice la lingua italiana le permette di ricordare e di alimentare la memoria mentre la sua lingua nativa è troppo dura e fa male al cuore . Tra i suoi libri Chi ti ama così, Milano: Lerici, 1959; Venezia: Marsilio 1974, 2015. Andremo in città, Milano: Lerici, 1962; Roma: Carucci, 1982; Napoli: L’ancora del Mediterraneo, 2007. È Natale, vado a vedere, Milano: Scheiwiller, 1962. Le sacre nozze, Milano: Longanesi, 1969. Due stanze vuote, Presentazione di Primo Levi , Venezia: Marsilio, 1974. Transit, Milano: Bompiani, 1978; Venezia: Marsilio, 1995. Mio splendido disastro, Milano: Bompiani, 1979. Lettera alla madre , Milano: Garzanti, 1988. Premio Rapallo Carige per la donna scrittrice 1989; Milano: La nave di Teseo, 2022. Nuda proprietà, Venezia: Marsilio, 1993. L’attrice, Venezia: Marsilio, 1995. Il silenzio degli amanti, Venezia: Marsilio, 1997. Signora Auschwitz: il dono della parola, Venezia: Marsilio, 1999, 2014. L’amore offeso, Venezia: Marsilio, 2002. Lettera da Francoforte, Milano: Mondadori, 2004. Quanta stella c’è nel cielo, Milano: Garzanti, 2009. Premio Viareggio 2009 – Premio Città di Bari-Costiera del Levante-Pinuccio Tatarella Privato, Postfazione di Gabriella Romani, Milano: Garzanti, 2010. Premio Europeo di Narrativa G. Ferri – D. H. Lawrence Il sogno rapito, Milano: Garzanti, 2014. La rondine sul termosifone, Milano: La nave di Teseo, 2017. Ti lascio dormire, Milano: La nave di Teseo, 2019. Il pane perduto Milano: La nave di Teseo, 2021. Sono Francesco con prefazione di Papa Francesco e postfazione di Noemi Di Segni , Milano, La Nave di Teseo, 2022,
Tra i suoi libri di poesie :Il tatuaggio, Presentazione di Giovanni Raboni , Parma: Guanda, 1975. In difesa del padre, Milano: Guanda, 1980. Monologo, Milano: Garzanti, 1990. Itinerario: poesie scelte, Roma: Quasar, 1998. Specchi, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2005. Versi vissuti. Poesie (1975-1990), a cura di Michela Meschini, Introduzione di Michela Meschini, Prefazione di Paolo Steffan, Postfazione di Edith Bruck, Macerata: eum, 2018. Tempi, Milano, La nave di Teseo, 2021.
Ha tradotto, spesso in collaborazione con Risi, i più grandi poeti ungheresi, Gyula Illyés, Ruth Feldman, Attila József e Miklós Radnóti, e presentato Renukā.
Ha scritto anche per il teatro, sceneggiature per film e ha svolto l’attività di regista .
La produzione poetica di Edith Bruck è stata raccolta in Versi vissuti. Poesie (1975-1990), libro uscito per le Edizioni dell’università di Macerata (eum) nel 2018. Il volume, curato da Michela Meschini, riunisce le tre raccolte di poesia che Edith Bruck ha pubblicato nell’arco di un quindicennio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: Il tatuaggio (1975), In difesa del padre (1980), Monologo (1990). Il libro è accompagnato da un articolato apparato paratestuale che prevede un’introduzione della stessa curatrice, una nota di Paolo Steffan, una postfazione di Edith Bruck, e ripropone la presentazione di Giovanni Raboni alla prima raccolta poetica, Il tatuaggio del 1975. Questo libro ha il merito di rimettere in circolazione le poesie di Edith Bruck, non più reperibili, o non più facilmente reperibili. E lo fa allineando le tre raccolte che costituiscono l’intera o quasi opera poetica edita dalla scrittrice (9)
Mi dicevi di pregare
prima di dormire
e io mormoravo
qualche poesia
imparata a scuola.
Adesso penso a te
tutte le sere
prima di dormire
e so che tu sei stata e sei
la mia salvezza.
- “Educazione”
E se il futuro non fosse figlio del passato o del presente?
Ma orfano, tabula rasa per i nuovi nati
per educarli al buono, al bello,
al rispetto di ogni prossimo di qualsiasi etnia e fede.
Non dire mai ai propri figli che sono i più belli
ma che tutti i bambini sono belli.
Educali a dividere a scuola, durante la pausa,
la propria merenda con chi non ha niente
i giocattoli di chi ne ha troppi.
La condivisione fin da piccoli è creatrice di pace
di un mondo nuovo che non è mai esistito.
Potrebbe mai essere?
Dipende solo da noi, senza pregare Dio.
La responsabilità di tutti i mali del mondo
è nostra.
. . .
Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio […]
(Infanzia, vv. 1-8).
Per tornare a “Signora Auschwitz . Il dono della parola” ecco l’incipit. Brucke parte proprio dal ricordo del postino che nella sua infanzia recapitava la posta a casa sua e lo accoglievano invitandolo alla loro tavola ,per introdurre quello che è stato ed in sostanza il suo compito ormai da molti anni : rispondere a domande che le fanno gli altri e che si fa lei stessa. Lei che è passata attraverso gli orrori dei campi di concentramento e di sterminio nazisti nazisti e che per molto tempo ha sentito anche fisicamente il dovere della testimonianza.
Scrive proprio iniziando a raccontare la sua esperienza che a lungo ha titubato nel raccontare quella esperienza e che sono state le domande dei più giovani che incontrava a darle la forza e la determinazione per iniziare il lavoro di testimone : “Da bambina mia madre attendeva il postino giorno dopo giorno come fosse il Messia, e io con lei; notizie da parenti sparsi per l’Europa orientale. O magari l’avviso di un bel pacco dono di vestiti smessi dai cugini mai conosciuti e lettere delle mie sorelle maggiori da Budapest, città per me di una lontananza inimmaginabile dal mio villaggio: una sorta di Sodoma e Gomorra peccaminosa e splendente di luci e colori dove sarei andata anch’io da grande in cerca di futuro. Con ogni messaggio, buono o cattivo che portasse, l’omino dall’aria più logora della sua borsa, quasi del tutto vuota, veniva accolto da viandante nella nostra povera casa e gli si offriva sempre qualcosa da bere e da mangiare.
Oggi le notizie di tutto il mondo ci annichiliscono. L’anonimo postino è diventato il nemico che ci affoga di carte da buttare. Ogni tanto qualche lettera sperduta, spedita da un mittente apparentemente sconosciuto e tuttavia ansioso di una risposta impegnativa. Come la liceale di Pescara che chiamerò Laura: «Durante l’incontro con lei non le ho rivolto domande, anche se ne avevo tante in mente. Quel giorno ho preferito ascoltarla, attonita, piangere magari di fronte a certe sue affermazioni, a certi suoi ricordi, ed è proprio per questo che le scrivo. Mi spiego: sono stanca del mio animo giovanile che come niente si entusiasma, si adira, si sdegna di fronte a orrori come Auschwitz, si schiera pronto alla battaglia contro le ingiustizie nel mondo e poco tempo dopo tutto svanisce, inghiottito dalla quotidianità, dagli impegni giornalieri, dalla noia, da questa vita monotona che mi ha dato tutto e che non mi fa apprezzare niente. Questa lettera è una richiesta di aiuto. Io le chiedo di aiutare la mia giovane coscienza a non dimenticare, a non riaddormentare lo spirito che si ribella a questo mondo così brutto nei confronti del quale però non posso essere indifferente, perché esso è anche mio. Io le chiedo, se ha un po’ di tempo, di corrispondere con me, per aiutarmi a crescere con la testimonianza del suo dolore che, se mi è permesso dirlo, con tutto il rispetto, io quasi le invidio, perché le ha donato una forza, una sensibilità, una dignità che io non possiederò mai. Comprendo il suo desiderio di «custodire» per sé la sua sofferenza e mi perdoni se forse le domando una violenza alla sua persona, ma la prego, mi insegni a parlare della deportazione. Noi ragazzi di oggi, così stupidi e ignoranti di fronte ai superstiti della guerra potremo continuare a denunciare le atrocità compiute nel cuore dell’Europa appena mezzo secolo fa, mantenendo al posto di tutti voi, la promessa fatta a chi, morendo nei campi, vi ha pregato di RACCONTARE…”
Appunto di fronte a queste domande Bruck afferma : “Questa lettera, una delle poche che conservo, avrebbe meritato più di una mia cartolina due anni fa. Indirettamente cercherò di rispondere e giustificare il mio silenzio colpevole sia nei confronti della giovane Laura che di me stessa, dei miei morti, di tutti i morti e morenti che mi hanno lasciato in eredità il loro ultimo desiderio: raccontare, se fossi sopravvissuta. Dire della nostra vita, o della morte nei lager nazisti.”
“SignoraAuschwitz . Il dono della parola “ è dunque la risposta a molti quesiti che le vengono posti .
Ma è anche una risposta alle sue domande quando per esempio si chiede dove sia Dio nei campi di sterminio : “ Ma anche le domande che seguivano ai miei interventi o alla lettura del mio primo libro autobiografico, Chi ti ama così, cominciavano a mettermi a disagio. Soprattutto quando non trovavo risposta né per me né per loro. Dopotutto credevo in Dio? Perdonavo il male subìto? Potevo dar loro la mia forza?
Volevano che fossi io a dire che Dio c’era, come se la mia sopravvivenza fosse stata la prova della sua esistenza, e l’Olocausto quella della sua inesistenza. Il tradimento del Dio ebraico vendicativo? Chiedevano. Il fatto che non me la sentissi mai di coinvolgere Dio in un’esperienza così atroce li disorientava come il mio balbettìo sulla questione del perdono. Solo la mia totale estraneità a qualsiasi sentimento di odio o di vendetta verso chiunque pareva rasserenare i loro giovani volti bisognosi di certezze e di risposte rassicuranti. Dire che nella mia cultura un individuo poteva perdonare solo per se stesso, immancabilmente riproponeva la mia diversità e la stessa eterna domanda: e io ho perdonato?
Il mio sguardo smarrito e dispiaciuto che non dava risposte creava nuovi disagi fra gli studenti, educati e cresciuti nella cultura del perdono e dell’assoluzione. E spesso, pur essendo ascoltata da molti, a volte con autentico sbigottimento mi vedevano, mi sentivano diversa. Lontana anni luce, anche come generazione. Spesso, soprattutto negli ultimi tempi, mi sembrava di parlare al deserto, nonostante avessi davanti centinaia di teste che sembravano tutte uguali: un unico muro nemico che cominciava a farmi paura; e per non temerli più mi insinuavo in loro, li incoraggiavo dicendo, ed era vero, che esisteva anche nei lager nazisti la luce della speranza, che c’erano degli esseri umani anche nella disumanità. Pochi, tre o quattro soldati tedeschi che avevano uno sguardo pietoso nei miei confronti e mi regalavano una patata, un po’ di marmellata del loro rancio, un paio di guanti bucati; e uno, unico, indimenticabile, che mi aveva anche chiesto come mi chiamavo. Il nome, invece del mio numero: 11152.Spiegai ai ragazzi che per gli ebrei Dio non ha immagine, ma se l’avesse somiglierebbe proprio a quei pochi tedeschi che mi guardavano non per selezionarmi ed eliminarmi o che allungavano le mani per aggredirmi, ma per darmi qualcosa. Erano loro a rappresentare la speranza, la volontà di sopravvivere. Uscire da quell’inferno e poter dire che non c’era tenebra senza luce. E se questo voleva dire fede, allora ero credente. A modo mio.”
Carolina Pernigo in una recensione del volume su critica letteraria org dice : “È il corpo il primo a tradire: la nausea, i crampi, un continuo contrarsi delle viscere non riconducibile ad alcuna causa organica, a segnalare forse un rifiuto, un eccesso da stornare. Edith Bruck, dopo molti anni passati a testimoniare, a obbedire a una promessa fatta ai morti, avverte il peso, interiore ed esteriore, di questo racconto. Le pesa “andare in giro come una rappresentante di Auschwitz, l’archetipo di Auschwitz” (p. 46), Auschwitz è il mostro che la abita, che la divora dall’interno. Quando una ragazza, durante un intervento, la chiama “Signora Auschwitz”, negandole ancora una volta il nome come avveniva nei campi, il senso di soffocamento, di prigionia, diventa dominante, incontrollabile. Perché insieme ad Auschwitz la abita il male assoluto, “il contenitore, il parente più prossimo, padre e madre di ogni nefandezza umana” (p. 25). Per tanto tempo Edith crede che le testimonianze possano esorcizzarlo, che ogni libro permetta di buttar fuori “un pezzo del figlio-mostro concepito ad Auschwitz”, ma si rende ben presto conto che non è così:
Chi ha Auschwitz come inquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai, anzi lo alimenta. (p. 25)
Soprattutto se il pubblico è sempre più spesso costituito da ragazzi distratti, poco interessati, o coinvolti il tempo della testimonianza e poi subito risucchiati dalla loro vita frenetica, quasi sempre inconsapevole. Se si attenua fin quasi a svanire l’impressione che i giovani possano imparare a riconoscere i segnali del pericolo, a scongiurare il ripetersi della tragedia.
Quell’indifferenza muta, come altre volte creava un vero e proprio muro tra me e loro. Un muro che dovevo demolire per smuoverli con qualcosa che potevano sentire, capire. (p. 129)
La risposta collettiva alla studentessa che le chiede di aiutarla a crescere e di esserle guida spirituale, per vivere da vera cristiana la propria fede, diventa un’auto confessione su ciò che implica il dovere morale della testimonianza. Un terreno psicofisico finora inesplorato nella cosiddetta “letteratura concentrazionaria”: cosa può comportare e suscitare la testimonianza orale o filmata in chi l’ascolta, in chi la guarda, e in chi racconta e quindi rivive quell’esperienza estrema, avvertita come un peso, una condanna, un destino crudele da cui l’autrice tenta di fuggire in malattie vere e immaginarie dal mostro-Auschwitz. Luogo di concepimento del Male, di cui si sente gravida e rappresentante sempre più a disagio. La sua lotta lacerante e inutile ci fa capire l’eredità forse comune anche ad altri sopravvissuti. Per la Bruck non ci sono medicine, neurologhi, analisti in grado di liberarla dall’inquilino che per sempre abiterà il suo corpo e la sua anima, e
che probabilmente non può essere espulso perché nessuno vuole veramente vederlo venire alla luce .
Memoria e testimonianza due preziosi valori che Edith Bruck ci consegna con la sua opera di narratrice degli orrori ma anche come luminosa indicazione di speranza. Una speranza che avvenimenti come quelli che ha vissuto nella sua infanzia e adolescenza non debbano più accadere anche se il mondo spesso si dibatte in una dolorosa progressione di” stupidità “ partorita dalle guerre in atto sotto ogni latitudine; guerre che sono la causa di distruzioni, sofferenze e morte e che rinnovano ogni giorno orrori che dopo quelli di cui sono stati testimoni Bruck, Levi e molti altri non si vorrebbero vedere mai più.
(1)Michel Foucault, Entretien avec Claude Bonnefoy, 1968M. Foucault, Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy, a cura di Ph. Artières, Paris, Éditions de l’EHESS, 2011, pp. 30-31.
(2) Cfr. M. Foucault, Préface à l’“Histoire de la sexualité”, in Dits et écrits II, cit., p. 1403: «La pena e il piacere del libro è di essere un’esperienza».
(3) M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 862.
(4) M. Foucault, Le souci de la vérité, in Dits et écrits II, cit., p. 1494.
(5)https://www.leparoleelecose.it/?p=2256
(6)Intervista a Marialuisa Miraglia ecodibergamo.it
(7)Alberto Bertoni, L’Olocausto e l’identità letteraria
(8)Gadi Luzzatto Voghera, La Shoah è unica, ma fare paragoni si può, a certe condizioni, in www.statigenerali.com
(9) https://laletteraturaenoi.it/2019/05/01/il-presente-del-passato-i-versi-vissuti-di-edith-bruck/)