Una stagione come luogo dell’anima: “L’estate del mondo” di Gabriele Galloni

Una stagione come luogo dell’anima: “L’estate del mondo” di Gabriele Galloni

 

Brevi, limpide, indimenticabili – ma anche estemporanee, misteriose, destinate a perdersi come il tempo che cantano; parlano di quegli attimi che vorremmo conservare per sempre tra i ricordi più intimi, ma che poi finiscono con lo svanire come i frammenti di un sogno. Le poesie di Gabriele Galloni sono così.

 

Mentre leggo “L’estate del mondo”, raccolta pubblicata nel 2019 da Marco Saya Edizioni, sono pervaso da una nostalgia strana, irrazionale, perché relativa a momenti di vita mai realmente vissuti. Ad assalirmi è anche una malinconia molto simile a quella di cui sono fatti i risvegli, quando la luce del mattino filtra attraverso le persiane e si devono fare i conti con la realtà.

 

 

È stato questo: svegliarsi da un sogno

e realizzarne attonito la luce.

I bambini, giù in strada, a fare il bagno

 

nelle pozzanghere come piscine.

Un sogno dell’estate; delle

stanze serene dove, perdonato

 

finalmente da te, assolvo le stelle.

 

 

Lo stile del poeta romano è un’originale reinterpretazione dei paradigmi di quello che oggigiorno è definibile e incasellabile nella macrocategoria della poesia contemporanea. Il tratto è corto, incisivo, mentre il ritmo, tronco in alcune parti, non sfugge agli affanni e ai moti di soluzioni prosodiche eleganti e atipiche. Ciò non vale solo per le liriche contenute in questo libro, ma per l’intera produzione poetica di Galloni. Fin dagli esordi un’irrequieta compostezza anima le sue rime. Non che non vi sia stata, nel frattempo, una maturazione, ma in questo caso – prendendo a prestito una frase pronunciata da Joe Dugan per lodare la straordinarietà del suo compagno di squadra Babe Ruth – la poesia di Galloni, più che nascere – e crescere lentamente –, sembra invece essere caduta da un albero.

 

Il suo talento letterario si è palesato precocemente e in una forma, se non già definitiva, comunque prossima a essere la versione migliore di sé stessa. I versi di Galloni colpiscono per la loro capacità di creare immagini nitide, vivificare fantasie, scontornare dal mondo onirico figure misteriose e paesaggi idilliaci, trasponendoli entro le realtà a lui più vicine e care – la spiaggia di Focene, per esempio – e hanno l’impatto che hanno perché sono il manifesto di un’identità stilistica prossima alla perfezione. Ovviamente, non si parla di poesie perfette in senso assoluto, ma perfette in relazione al poeta che Gabriele Galloni era, voleva essere e che sarebbe diventato, se un tragico destino non lo avesse falciato nel pieno della giovinezza, strappandolo ingiustamente all’affetto di chi lo conosceva e a un futuro certamente radioso.

“L’estate del mondo” ne è il compendio più strutturato, più vicino a quell’apice che tutti gli scrittori rincorrono. Di nuovo, ciò è da intendersi relativamente al discorso dell’identità accennato poco sopra. In queste pagine i temi principali della poesia di Galloni, i suoi impianti letterari, le peculiarità del suo scrivere, unitamente agli elementi stilistici che ne definiscono la riconoscibilità e che lo rendevano un poeta unico – fresco e maturo esattamente come il frutto caduto dall’albero sopramenzionato –, tutte queste caratteristiche, dicevamo, in questa raccolta trovano pienezza.

 

A partire dall’estate, la stagione per antonomasia più prossima alla leggerezza eterea della poesia, che qui, prima ancora che finestra affacciata su un tempo della vita a tutti caro – la giovinezza –, assurge a essere un luogo dell’anima ove vivere e rivivere la fugacità della vita stessa, annientando la prima con l’eternità che i versi cristallizzano, ed esaltando la seconda attraverso la celebrazione delle caducità particolari che la sostanziano. Gli amanti, le apparizioni, le visioni e le reminiscenze – espedienti poetici molto cari a Sandro Penna – sono tra quelli maggiormente utilizzati da Galloni. Oltre ai temi, anche la brevità di molti dei componimenti fa eco alla produzione del poeta perugino, ma se in Penna vi era una spensieratezza più giocosa, in Galloni l’aspetto ludico è soverchiato da vampate di calibrata e ironica follia. Ne “L’estate del mondo”, però, la sfrontatezza e la lontananza da dietro le quali Galloni contemplava il mondo nelle sue opere precedenti hanno ceduto il passo a una comunione con l’oggetto del suo canto. La distanza che rimane incolmabile, e che i suoi versi esprimono, è quella che intercorre tra realtà e sogno.

 

La sintesi operata dalla black box poetica di Galloni è di conseguenza un luogo ibrido, sospeso tra eternità e finitezza, dove gli elementi linguistici prediletti e usati con ricorrenza dall’autore costituiscono a loro volta un topos che ne demarcano la riconoscibilità. Non solo l’estate, ma anche la luna, il mare, le case bianche e le spiagge sono gli interpreti che generano il mondo elegiaco dove l’anima del poeta vaga, ama e vive.

 

 

E con gli occhi arrossati ritrovarsi

una mattina, soli, a camminare

lungo un fossato oppure lungo un muro

 

enorme, bianco; e un sole di domenica.

 

A tratti forma perde forma come

un tessuto che vecchio si sfilacci

negli anni; e appaiono le case, bianche

 

anch’esse; i porticati

a quest’ora deserti – laggiù il mare

che non si vede.

 

 

Molte delle liriche rievocano la transitorietà tipica delle cartoline e del viaggio inteso come topos. Non perché esse siano didascaliche o perché l’autore-eroe si trovi ad adempiere a un percorso di formazione, tutt’altro. Il trasporto suscitato dai versi è un allontanamento dal proprio sé che non prevede ritorno. Esse conducono a una dimensione vergine, distante da tutto ciò che prima era cardine. L’intento non è di rinnovare, ma di dilatare il proprio essere, consegnarlo alla sregolatezza del lirismo onirico, destrutturarlo fino a congiungerlo con gli elementi primitivi accennati nel paragrafo precedente, scomporlo attraverso la riesumazione di ricordi idilliaci, ma anche tragici.

 

Vi è quasi sempre, anche nel testo all’apparenza più innocuo, un’ombra pronta a emergere e colpire il lettore sottoforma di elemento pulp. Vezzo di gioventù declinato ora sotto forma di eros, ora entro immagini di violenza, ma anche strumento diegetico – e poetico – che Galloni ha affinato nel tempo, riducendo le sbavature al minimo. Laddove prima utilizzava tale strumento per scioccare, stupire per il gusto di stupire, ne “L’estate del mondo” vi è un uso più equilibrato di queste soluzioni. Stessa cosa per quanto riguardo le rime. Se in precedenti occasioni alcune di esse potevano risultare telefonate o forzate, in questa raccolta la coerenza dell’immagine poetica non è sacrificata sull’altare dell’armonia fonica. La totalità che ne consegue è l’atto del poeta sul mondo – del suo modo di essere poeta –: dissacrare in modo disorientante il divino per santificare la carne, ma senza mai prendersi troppo sul serio.

 

Perché il poeta, per Galloni, non ha davvero una missione. Anzi, darsene una potrebbe far venir meno la poesia in seno all’azione poetica – che è scrivere, comporre. Così, al fine di spezzare la ruota, è necessario fermarsi a metà di essa, non andare fino in fondo. E fermarsi è l’occasione per contemplare i luoghi e i tempi in cui la vita era vita e basta, perché scevra dell’indagine contemplativa a cui il poeta sottopone il mondo, perché libera dalla consapevolezza di essere vivi, e quindi destinati a morire. E quale stagione, nel proprio spirito, racchiude di più tale condizione, se non l’estate?

 

Tutto questo, Gabriele Galloni deve averlo intuito a suo tempo. E lo ha messo in poesia.

 

Le sue liriche hanno catturato magnificamente non solo una stagione della vita, ma anche l’anima di una stagione, e rivelano, oltre al particolare genio poetico, una sensibilità di sguardo irriverente e devota, infinita e breve. Un po’ come l’estate, un po’ come la vita.

 

 

Le poesie riportate sono tratte da “L’estate del mondo” di Gabriele Galloni, Marco Saya Edizioni (Milano, 2019)

 

 

 

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