Il deserto dei Tartari, ovvero quando anche nel tempo più lungo finirà comunque tutto, anche ciò che non è mai accaduto

Il deserto dei Tartari

Ovvero quando anche nel tempo più lungo finirà comunque tutto, anche ciò che non è mai accaduto

 A cinquant’anni dalla scomparsa di Dino Buzzati avvenuta il 28 gennaio 1972 a Milano, è doveroso omaggiare l’autore de “Il deserto dei Tartari”, una delle opere letterarie più importanti dell’intero ‘900. Un omaggio riflessione sul macro tema dello scorrere del tempo e dell’attesa dell’evento che dia un senso alla vita, il passaggio da “Kronos” a “Kairos”. Ma a differenza dell’attesa di Godot di Samuel Beckett, il protagonista dell’opera di Buzzati vuole convincersi che prima o poi qualcosa accadrà.

In estrema sintesi per chi non dovesse conoscere la trama del libro, si tratta della storia dell’ufficiale di prima nomina Giovanni Drogo che viene destinato in una guarnigione di stanza nella Fortezza Bastiani ai confini con uno stato imprecisato, e per di più in un deserto scenario di scorribande di orde di Tartari così come la leggenda narrava. In realtà i Tartari, che sono una popolazione nomade dell’Asia centrale, non hanno nulla a che vedere con il romanzo, ma è il pretesto narrativo che Buzzati sfrutta per evocare l’idea di una minaccia militare, la minaccia di un’invasione da parte di un popolo crudele. Nell’attesa che il nemico si palesi, il tempo scorre secondo precisi canoni. I canoni dei doveri militari, degli adempimenti da assolvere senza fuoriuscite dai ranghi, scrutando con atteggiamento di routine l’orizzonte ed il deserto dilatato dagli anni che passano. Ed in questo consistente miraggio ritroviamo un primissimo elemento di riflessione nella cieca osservanza di regole stabilite solo per determinare il grado di ubbidienza, al di fuori da ogni logica che non sia quella della catena di comando. L’episodio della guardia uscita a recuperare un cavallo che era fuggito, e che pur riconosciuta, viene uccisa perché non ricorda la parola d’ordine, così come regolamento vuole, è estremamente emblematico di ciò. La liturgia dei compiti assegnati, che diventano motivo preminente di esistenza, scandisce il passare delle giornate. Portare a termine la propria missione per il protagonista Giovanni Drogo, ovvero difendere la Fortezza da un attacco nemico eternamente imminente, è il suo dovere assoluto. Eppure, egli ha la possibilità di allontanarsi da quel luogo, che in un primo momento non gli fa affatto una buona impressione. All’appuntamento con la visita medica periodica, che avrebbe dovuto sancire la sua inabilità al servizio presso la Fortezza Bastiani, il sottotenente Drogo vi giunge però ammaliato da quelle distese desertiche che nel frattempo hanno esercitato su di lui un fascino che lo induce a rinunciare al trasferimento, ed ogni ripetitiva abitudine si trasforma in qualcosa di rassicurante, in quel qualcosa che lo porterà alla gloria, una gloria futura da condividere insieme con i suoi compagni. Oramai egli non è più capace di vivere in un altro posto al di fuori di quello, e ci prova anche a distanza di ulteriori anni, ad ottenere un trasferimento, consapevole della sua raggiunta inadeguatezza al vivere cittadino. Un trasferimento al quale deve ancora una volta rinunciare perché altri lo hanno preceduto. Il senso di smarrimento che prova durante una licenza, è totale. Non riconosce più la sua casa, i suoi affetti più cari, ed i ritmi cittadini gli sono del tutto estranei. Il dialogo con il suo vecchio mondo si è interrotto. L’impossibilità al trasferimento sancisce così il suo ritorno al deserto, nel consumarsi della vita e dell’attesa di quel nemico che dovrà giungere, come la morte; come la beffa. Perché si ammala, Giovanni Drogo, proprio quando il nemico si materializza e la guerra può avere finalmente il suo inizio. Non può più combattere, corroso dalla malattia non gli resta che essere trasferito. Quel trasferimento sempre rinviato, e mai desiderato fino in fondo, si prende la sua ultima scena. Ma nonostante ciò, egli comprende proprio in fin di vita che ad essere sconfitto è stato il suo vero nemico, quel nemico palesatosi con le sembianze della paura della morte, una paura che non ha più. La battaglia decisiva è stata vinta. Quel che si doveva compiere, si è compiuto. Al di là dell’epilogo della vicenda in sé, sullo sfondo restano tutti i temi dell’inadeguatezza e dell’incompiutezza, che ci restituiscono uno scorrere reale dell’esistenza ben diverso da quella che può essere la nostra immaginazione.

Quanto ci poniamo come obiettivi da raggiungere nel tragitto che ci è dato di compiere, può tramutarsi nell’angoscia di una perenne attesa fine a se stessa, trasformandoci in una rotellina all’interno di un meccanismo di repulsione/accettazione.

L’aspetto materiale di situazioni concrete come la rigida organizzazione militare con le sue regole indiscutibili per antonomasia, l’ambientazione asettica della fortezza da presidiare immersa in un deserto tanto angusto quanto dilatato nei suoi orizzonti, trasfigurato nel mare di Hemingway per certi aspetti, in analogie rintracciabili ne  “Il vecchio e il mare”, dove la solitudine del secondo è pari a quella dei diversi personaggi del libro di Buzzati, tutta questa combinazione di forme strettamente legate allo scorrere del tempo, costituiscono l’essenza di un assurdo che dà il senso unico ed ultimo dell’agire di ognuno.

Quello che è il sottotenente Giovanni Drogo, ciò che rappresenta in termini di costrizione e ricerca del proprio posto nel mondo, non è ravvisabile anche in ognuno di noi? Ipotizziamo un uomo altro in un posto altro, in un qualsiasi altro posto, che con speranza (e rassegnazione) attende l’evento rivelatore, e che nell’attesa che ciò accada, si rende uniforme a regole e situazioni che forse non condivide, ma le accetta fino al punto che non riesce più a farne a meno, è lo stesso uomo che osserva con un cannocchiale un puntino nero in lontananza nel deserto, e crede che quel puntino nero sia finalmente la svolta tanto attesa, un puntino nero che tale resta. Così come resta tale l’inganno che la vita ci riserva come esito finale, l’unico aspetto che non tradisce le attese. Ma anche la più “realizzata” delle vite, se provasse per qualche istante ad interrogarsi nel profondo sul suo significato, non potrebbe che trarne smarrimento di fronte al susseguirsi di eventi che non sfuggono ad una stessa catalogazione, molto più simile di quanto si pensi, ad altre esistenze cosiddette minori. Poniamo a confronto due situazioni differenti (?) di tale assunto, dove colui che non si conforma  al comune sentire, è giudicato anormale proprio nel suo prendere atto dell’assurdità dell’esistenza, che si manifesta in atteggiamenti definiti normali soltanto perché eseguiti dalla maggioranza, dove finanche la felicità viene inquadrata a maggioranza. E più radicate sono tali regole, più estraneo appare colui che non le rispetta. Pensiamo al personaggio dello “Straniero” di Camus, giudicato insensibile perché non partecipa alla veglia per la morte della madre, soltanto perché si sentiva stanco, e non capiva il perché di un comportamento (la veglia) da tenere solo perché osservato da tutti. L’ulteriore spunto che il libro di Buzzati ci offre è, come indicato all’inizio, l’elemento temporale sotto forma di coesistenza tra tempo lineare e tempo circolare, dove ogni cosa è riportata al punto di partenza. Quanto accade (o non accade) nei trentaquattro anni di permanenza alla Fortezza Bastiani, è l’elemento lineare dello scorrere del tempo; la morte che lo coglie a cinquantaquattro anni, è l’elemento circolare che chiude e ricomincia, annullando quasi il primo aspetto.

Dobbiamo convivere con l’accettazione della nostra caducità cercando di sconfiggere la paura per qualcosa che conosciamo bene fin dall’inizio, una convivenza che di per sé appare come una contraddizione in termini: aver paura di quel che bene si conosce fin dall’origine. La Fortezza di Giovanni Drogo è il luogo del tempo circolare concepito come abitudine e rifugio, con l’accettazione del non senso per sfuggire all’impegno del senso. Egli non si è sposato, non ha avuto figli (il simbolo massimo della continuità della vita), e ciò che gli resta è affrontare l’ultimo tratto da solo e vecchio. Di fronte all’unica certezza che lo ha accompagnato per la sua intera esistenza, il suo vero nemico, egli cerca la dignità umana ultima per andare incontro all’ineluttabile, assumendone su di sé l’intero significato, sfuggitogli per tutta la vita. La battaglia è persa, nessuna gloria da raccontare ai posteri: la battaglia è vinta.

 

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