Il giallo, l’ombra dell’eugenetica e la (im)perfezione da raggiungere ne “La classe” di Christina Dalcher

A volte mi capita di divorare un libro sino a quando il finale è vicino. E poi di bloccarmi, proprio quando mancano poche pagine. Chiudere tutto. Farmi domande. Tornare, riprendere la lettura, ma solo per due pagine. Interromperla ancora. Cercare di tenere la testa occupata con altro e poi, immancabilmente, tornare a leggere una pagina, poi un’altra.

Succede poche volte, è vero. E solo con libri che sto amando. Mi sono data una risposta: ho difficoltà a lasciarli andare, a sentire nella testa la parola “Fine”. Staccarmi da loro, perché la storia racchiusa al loro interno mi ha coinvolta troppo, mi ha fatto troppo male. A volte mi trovo a pensare che ci sia più verità in un libro di poesia o di narrativa di quanta ne possa essere raccolta in un’enciclopedia filosofica.

Con “La classe” di Christina Dalcher è successo così: le pagine si sono rincorse una dietro l’altra tra le mie dita e poi, a venti minuti dalla fine (conteggio dell’e-reader), ho iniziato a centellinarle. Perché c’era troppo dolore. E soprattutto perché la verità che stava emergendo stava parlando anche a me. Conoscevo già questa autrice, perché avevo letto e recensito il suo titolo più famoso, “Vox”. Lo trovate proprio qui su Poesia: femminile singolare a questo link.

 

Christina Dalcher

 

A volte mi chiedono perché ami così tanto la letteratura distopica. Rispondo pressappoco così: “perché parla della realtà molto più di un saggio”. Intendo il libro, certo, ma potrei immaginare anche l’antica figura del sapiente, a volte così distaccato dalla realtà che ci circonda.

Siamo sempre stati i nostri numeri. Data di nascita. Media dei voti. Codice fiscale. Pressione arteriosa, diastolica e sistolica. Indice di massa corporea. Risultati dei test di ammissione al college, ai corsi post-laurea, al master, alla scuola di Legge. 90-60-90 (Marilyn, accidenti a lei). La Les Paul da collezione #3 (The Babe). PIN e codici di sicurezza delle carte di credito e date di scadenza. 867-5309, il numero di Jenny in quella famosa canzone. E, per i più estremi, la sequenza di sedici cifre del numero della Visa. La nostra età. Lo stipendio netto. Il quoziente intellettivo.

 In America è stato introdotto il quoziente Q per la classificazione di alunni, basato sui voti ottenuti nella prova mensile e sulla condotta. Ci sono tre tipi di scuole: quelle argento, dedicate agli alunni più dotati; quelle verdi sono per gli studenti normodotati; quelle gialle, infine, sono lontane, i ragazzi partono e non fanno più ritorno a casa.

Immagina, adesso, di essere una donna. Una madre. Un’insegnante. Di essere stata tra gli ideatori e i promotori del quoziente Q. Di iniziare, a un tratto, a nutrire perplessità su questo sistema che classifica le persone in base a dei voti e alla capacità di obbedire a delle regole. Di vivere in una società in cui gli individui considerano il fallimento una malattia contagiosa.

A me il giallo è sempre piaciuto. È un colore felice, non tranquillo ma nemmeno prepotente. Non è sfacciato come il rosso, che sa di pericolo, dolore, malvagità. Ripenso alle tende giallo burro che io e Malcolm abbiamo appeso nella cameretta di Freddie prima che lei nascesse, all’oro della paglia che si usava per sfamare i cavalli prima che le fattorie diventassero lotti da costruzione, ai tuorli d’uovo che sorridono lucidi da una padella sfrigolante nelle pigre domeniche mattina.

[…]

Ma all’improvviso il giallo è diventato il colore più brutto del mondo.

A essere assegnata a una scuola gialla è proprio una delle figlie di Elena Fairchild: la piccola Freddie. Così anche la madre decide di fallire il test destinato agli insegnanti per tentare di recuperare la sua bambina e di salvarla.

Il progetto basato sul quoziente Q che aveva sognato Elena insieme al marito Malcom era quello di una società più equa e più attenta alle esigenze di ognuno. Mentre lei, sbagliando, era stata mossa da amore e clemenza, ciò che aveva nutrito e alimentato il marito era l’odio. Odio per quelli popolari che ti trattavano come un mostro. Le parole, a volte, possono trasformare in mostri e ribaltare i piani. Così, in modo inesorabile, gli alunni più brillanti sul piano intellettivo avevano avuto la rivincita contro chi poteva permettersi di saltare la fila, di avere tutte le porte aperte solo perché era bello e amato.

La lingua è ingannevole, a volte. Le nostre parole non significano ciò che intendevamo. “Ti amo” funziona alla perfezione anche per ringraziare l’amica che ti ha prestato i suoi sandali rossi, così come ti odio quando lei prende il massimo dei voti in fisica senza avere mai studiato.

Uno dei concetti più importanti in filosofia è che per esistere le cose devono avere un nome. Il nome racchiude in qualche modo la stessa essenza dell’oggetto. Che potere può avere, quindi, la parola? Quanta distanza può esserci tra il sognare un mondo senza una categoria di persone (magari come nel caso di Malcom per rivalsa personale) e finire con il realizzare un progetto che mira proprio a questo?

Potrei riassumere i temi filosofici racchiusi in “La classe” di Christina Dalcher con il potere delle parole sulle cose e con lo spettro dell’eugenetica.

“Eugenetica”, termine tristemente noto in relazione all’ideologia nazista, è a livello etimologico una “buona razza”, cioè una disciplina che mira al miglioramento della specie. In bioetica si continua a discutere di eugenetica, perché se concordiamo tutti con l’orrore dell’eliminazione di chi viene considerato inferiore, la discussione si complica se analizziamo le possibilità di migliorare la salute, la qualità della vita. Se ti fosse offerta la possibilità di avere un figlio non predisposto a una malattia genetica proprio grazie all’eugenetica, saresti così sicuro di bollarla come immorale? Mi sia permessa, inoltre, una precisazione che tornerà anche nelle pagine del libro: l’eugenetica non è nata con il nazismo, ma a fine Ottocento. Il primo congresso mondiale su questo tema si è tenuto nel 1912 e ha coinvolto stati considerati liberi e all’avanguardia.

Ti starai forse chiedendo in che modo le parole e l’eugenetica (nel senso più estremo del termine) possano essere collegate. Potrei invitarti a sfogliare certi libri di storia e di scienze e a riflettere su come si sono radicate certe ideologie. Oppure potrei invitarti a leggere “La classe” di Christina Dalcher: un libro tremendo, un distopico che ha radici nel passato reale e che dovrebbe spingerci a una linguistica più dolce e più accogliente con l’altro, con quello che è semplicemente diverso da noi.

La diversità è il grande valore che ti invito a (ri)scoprire. Perché se fossimo tutti in apparenza perfetti, obbedienti, intelligenti, ma anche rigidi, chiusi mentalmente, indifferenti, avremmo perso la vera ricchezza dell’umanità. Sii clemente con le presunte imperfezioni che la società ti spinge a vedere. E se non sei ancora convinto che sia la strada giusta, che la perfezione esista e debba essere rincorsa, chiediti che cosa succederebbe se a un tratto i canoni cambiassero e tu fossi la rappresentazione di quello che è da eliminare.

Se, invece, ti senti oppresso, sei stanco di essere offeso e denigrato, non cercare nell’odio la risposta. Non ferire con le parole, non ghettizzare gli altri. Perché ti trasformeresti in tutto ciò che ti ha ferito.

Leggere “La classe” di Christina Dalcher mi ha fatto soffrire tantissimo e mi ha portato a interrogarmi sull’uso, a volte superficiale o inconsapevole, che facciamo delle parole. Mi sono chiesta quante volte ho fatto del male a qualcuno con quelle lettere fuggite fuori dalla bocca. Ho ricordato anche il dolore che ho provato quando magari mi sono state rivolte, ma, credimi, ho sofferto molto di più nel ricordare quello che a volte, in momenti di rabbia o di sconforto, tutti ci troviamo a pronunciare e non dovremmo mai nominare.

Se una società di migliori è davvero possibile, non si basa su quozienti matematici, su capacità di prestare ascolto in modo assoluto e assiomatico alle regole, ma sulla capacità di accettarsi. Per farlo, potremmo iniziare a usare con più cura e con più gentilezza la nostra voce, le nostre parole. E potremmo cominciare a considerarci qualcosa di diverso dal nostro peso, dalla nostra taglia di pantaloni, dal nostro numero di stelle raccolte tra i lettori, da un voto impresso su un diploma e sulla laurea. No, noi non siamo numeri. Noi siamo fatti di parole e per questo dobbiamo imparare a usarle.

Vi ringrazio per il tempo che avete dedicato a questa lettura e spero che anche voi facciate tesoro dell’incredibile insegnamento contenuto in “La classe” di Christina Dalcher.

 

Christina Dalcher, La classe, Editrice Nord, Collana Narrativa Nord.

416 pagine

https://www.editricenord.it/libro/christina-dalcher-la-classe-9788842933151.html

 

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