“Il folle, l’amante e il poeta” di Luciano Giovannini letto da Francesco D’Angiò

Caro Luciano, 

vorrei cominciare così questo narrare delle tue parole, come se stessi scrivendo ad un amico, verso il quale non occorre colmare alcuna distanza per riconoscerne le profonde qualità umane. E mi chiedo: si può ricevere l’appellativo di poeta che mai dovrebbe subire l’abbondante banalizzazione dei giorni nostri, senza l’ampia capienza di un animo nobile? Sì, si può; accade. Ma nel caso di Luciano Giovannini questo misero dilemma non si pone affatto, perché la compresenza di entrambi gli aspetti che confluiscono e si uniformano alla perfezione, è evidente sin dai primi versi, con il Tiresia di Luciano che ci prende per mano e ci conduce a vedere la nostra esistenza nonostante una cecità spesso appagante e pretestuosa. Con acume e perizia, Lucia Lo Bianco nella sua prefazione riporta tra gli altri proprio l’elemento dell’opera del poeta commisurata agli aspetti caratterizzanti il vivere quotidiano,  nel tempo che sintetizza ciò che è stato per riportarcelo in un presente che diviene futuro. E ci evidenzia da subito anche lo stato di “grazia” del poeta, che non si trasforma prima in donna e poi in uomo per poterci svelare un segreto caro agli dei, ma resta sé stesso mostrandoci per l’appunto ciò che è accaduto, ciò che accade, e quello che accadrà, seppure in un equilibrio precario dispiegato “in un lembo di terra ormai ignota” (e desolata). 

 

Caro Luciano, sì, sono diversi i brandelli di carne lasciati essiccare al sole così come tu scrivi, ed alla fine di tutto il nostro cercare, torneremo là dove siamo partiti, e sarà nuovo per noi quel posto. Perché il tuo amatissimo Bardo dell’Avon, ce lo aveva già detto qualche secolo fa, di questa fugacità della vita, di tutto quello che facciamo per complicare un percorso che non ha altre vie d’uscita se non quella che ci è ben nota, e dove solo all’amore dovrebbe essere concessa udienza massima, tralasciando ogni altro deleterio aspetto. Ma la nostra complessità ci nutre di caratteristiche che ci fanno diventare “sabbia ed il tempo è un vento troppo freddo”, e con queste parole lo riporti a noi questo vento, riuscendo a purificare con i tuoi versi l’aria della poesia. Perché sebbene sia difficile, ci dobbiamo provare a non vivere di rimpianti per “le strade non prese ed i fiori mai nati”. Mi verrebbe da dire che te lo dobbiamo, aggrappandoci alla tua esigenza  di essere creduto nonostante crepe sempre più ampie nel muro di tutte le speranze. Ed anche perché tutto quello che ci rimane è la follia del poeta e dell’amante, e spero tu possa perdonarmi se ho invertito il tuo ordine.

Nella tua personale nota ci hai invitato a scoprire “l’autore” di alcune liriche rispetto ad altre, ovvero se fosse il folle piuttosto che l’amante, per finire al poeta, per finire a te che le incarni tutte insieme.

Ci provo, ma so già che la fortuna non sarà in particolare modo benevola con me. E dunque mi tengo stretto il piacere della lettura nel suo complesso, perché chiunque ne sia “l’autore”, quel che importa è ritrovarsi insieme tra i tuoi versi con il rispetto e l’affezione che ti si deve. L’affezione si, in una osmosi tra autore e lettore, perché Luciano Giovannini non può che essere affezionato ai suoi lettori se da un letto d’ospedale in condizioni di estrema sofferenza, scrive di ferite profonde a connotare i volti di tutti i disperati della terra, e lo avrebbe avuto tutto il diritto di pensare solo alle sue di sofferenze. Ma il normale coraggio di uomini che non si arrendono nonostante il remare contro di chi si nasconde in ammuffite e vergognose frasi di circostanza, è il normale coraggio del poeta che dispiega i suoi versi per traghettarci in acque profondamente agitate, come nel ricordo di tragedie passate, che troppo spesso terminano il loro percorso nell’oblio. Egli non si arrende, e ci riprende per capelli facendoci sentire il rumore dei bombardamenti su Roma nel Luglio del ’43, e ci dice anche di non avere paura perché i campi tornano sempre ricchi di insetti e fiori a dispetto di ogni dimenticanza. 

La memoria, incrinata e vilipesa ad ogni ripetersi di situazioni nefaste, quella memoria dove Luciano custodisce le perle che ci dona, e nulla muta sia che si tratti di una “nera manciata di more” o “dell’odore del pane nel forno e dell’erba appena falciata”. E mi permetto un breve spunto personale caro Luciano, per dirti che anche per me “sono cerchi in un’inutile acqua quelli che tracci cercando risposte perché sai che sono stelle dissolte nel chiarore di un giorno nascente”. 

Uno scrigno prezioso il tuo, dove anche il silenzio che comunica ci viene a trovare, per domandarci dove andremo a finire. Una domanda alla quale allunghiamo il tempo di risposta soltanto per cercare nuove storie, a volte inventate, ma alle quali dobbiamo credere. Dobbiamo credere alle stelle nel cielo, che sono gli occhi della nostra eterna ragazza, e alla luna, che è un alchemico neo bianco sul viso dell’infinito, dobbiamo farlo se non vogliamo essere solo degli “inutili segni di un’era svanita” nell’istante che ci sfiora e che muta il corso delle cose in “un mare imprevisto agitato dal vento”.

Il mare caro Luciano, l’ho incontrato spesso in questi tuoi versi, insieme al suo massimo sodale, quell’Achab eterno di notti passate su tavole di vomito e sale, il nostro desolato mare; riportando con fedeltà le tue parole.

Di fronte alla sua vastità sentiamo lo scivolare del vento che ci mischia i ricordi e ce li serve in ordine sparso, il mare “scapigliata creatura” che afferra la mano di una madre, lo stesso mare che al tramonto intenerisce le sue onde per concedere ai gabbiani il loro cibo, e a noi la possibilità di accarezzare volti lontani nell’attesa di un loro ritorno. Il tuo unico mare di onde infinite, negli occhi di Alfredino. 

 

D’altro poi cosa dire, nel mio aggirarmi pregno di emozioni tra le pagine della tua silloge, scorgo sconfitte e dolori di ogni essere umano, dignità sottratte e calpestate, macerie di eterni conflitti con cui seppellire l’innocenza unica dei bambini. Ma dopo tanto buio, l’improvvisa dolcezza della “pioggia sul collo” placa i miei dubbi e i miei dolori, asciugando il mio pianto. 

Montale, che credo amiamo entrambi, ci diceva che “Spesso il male di vivere ho incontrato…”, ed è quella indifferenza che ci ammanta per vite intere facendoci indossare alla perfezione le nostre maschere. Non fingiamo neanche più che le sofferenze degli altri ci possano interessare, o se lo facciamo, è sempre peggio il nostro mostrarci. E quando una tragedia collettiva ci investe, siamo lì che scorgiamo la testa per vedere se l’abbiamo fatta franca anche questa volta. Ed è tutto ciò che ci importa.

Giunge quindi con ancora più necessità e forza, la tua linfa, la linfa delle tue parole di miele, di mosto e di seta; le parole che ti rendono poeta.

Quanti sogni di gloria andati in fumo, caro Luciano, ne sappiamo qualcosa entrambi. La scelta che ci resta è tra “l’acrobata miope che non vede più il filo”, “o un pianista perduto seguendo una nota”. E ci sediamo nell’attesa che questo buio infinito possa diventare ancora una splendida aurora. 

Perché in fondo, a cosa servono i poeti che si aggirano in questo mare di carta (eccolo che ritorna…) e d’inchiostro, con la loro zattera di fortuna, se non a ritornare ogni volta nel luogo dove un sogno muore per ridargli vita con l’unico tentativo disperato che abbia un senso, il poeta “nato per essere vento” che contiene tutti i dolori del mondo. Tu dici che egli è solo alla meta, io mi permetto di aggiungere che forse non vuole raggiungerla quella meta, ma che lo facciano gli altri, si…, o almeno ci provino con il soffio lieve della poesia che può spostare montagne; basta saperle osservare. E quanto ci manca sempre più spesso, la capacità di volare così in alto, come un falco con il suo eterno volo. Ci manca sempre più spesso la forza del grido di chi non vuole arrendersi, ci manca Pierpaolo, uomo libero. 

Caro Luciano, come forse avrai modo di notare, mi sono sottratto al tuo quesito, incapace di attribuire una paternità al “folle, all’amante, o al poeta”, ma non al piacere elevato della lettura delle tue liriche ho rinunciato, gettando la maschera, che per la verità, molto male sa nascondere le mie crepe. 

Oh, sì… quanto assomiglia “alla vita questa nostra triste commedia che spesso ci insulta e ci tedia”, ma tu il cuore non lo nascondi, no; ed è proprio lì che il tuo essere falco risiede.

A questo punto, prima di salutarti, spero tu voglia perdonare questo mio tono confidenziale, quasi da “vecchio carteggio tra autori”, e spero anche possa farlo la “tua” lungimirante e combattiva “Daimon” Alessandra Prospero, che oltre ad essere donna (e questo già le assegna notevoli punti di vantaggio), è anche notevole autrice in versi, oltre ad essere la “Deus Ex Machina” della Daimon Edizioni (perdonatemi la licenza poetica sull’articolo). 

E consentimi in fine, di riportare integralmente la lirica di chiusura della tua silloge, perché “Nunc et Semper”, ora e sempre avrò il piacere di leggerti caro Luciano, come spero in molti vogliano fare.

Un abbraccio, in questo eterno sogno di una notte di mezza estate.

Nunc et Semper

 

Noi ci perdemmo

tra gli scapigliati refoli

di un improvviso autunno

e percepimmo onde 

accarezzare scogli

mentre la sabbia

si arrendeva lieve

ai nostri impauriti corpi

 

Poi,

le sfiorai il capo.

 

Glabro.

 

Come desolato fiore.

 

“Non ho mai detto che ci sarà un domani

donami oggi la tua presenza,

vivimi adesso, nunc et semper”.

 

Il folle, l’amante e il poeta

di Luciano Giovannini

Daimon Edizioni

 

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